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N.inv.,
GIOVANNI GENTILE
I FONDAMENTI
DELLA
FILOSOFIA DEL DIRITTO
Terza edizione riveduta e accresciuta
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
Stampalo in Italia
AVVERTENZA
Il titolo di questo breve scritto può parere ambizioso;
ma, in verità, la mia intenzione è stata molto modesta ;
giacché ho voluto soltanto riassumere per sommi capi un
corso di lezioni tenuto quest'anno nell' Università di Pisa
agli scolari della Facolta di Giurisprudenza ; e il corso era
stato consacrato alle questioni fondamentali della Filosofia
del diritto ; a quelle cioè, su cui per solito sorvolano gli spe¬
cialisti di questa disciplina, troppo corrivi a impigliarsi
nell empirismo della così detta Enciclopedia giuridica. Dalla
quale, mercé loro, non si vede piii come quella Filosofia si
possa tenere distinta.
La Filosofia del diritto avrà diritto a vivere, finché si
manterrà filosofia. Alla quale non si perviene movendo dal
diritto, come non vi si perviene da nessun altro concetto
empirico ; poiché tutti i concetti, quando siano rigorosamente
determinati, sono già filosofia, e non possono perciò germo¬
gliare altrove che nel suo terreno.
Pisa, settembre 1916.
Lascio ristampare da alcuni miei giovani amici questo
sommario, benché non abbia più potuto, e tanto meno possa
ora rimetterci le mani per liberarlo dalla forma schematica
con cui esso fu scritto in origine e dare ad alcuni punti
quello svolgimento che avrei desiderato. Ho solo ritoccato
la mia esposizione per renderla più precisa e più chiara ;
e ho aggiunto in appendice due brevi scritti, che potranno
giovare all’ intelligenza della mia dottrina.
Roma, 20 luglio 1923.
Vili
AVVERTENZA
Dei due brevi scritti collocati nell’ appendice della pre¬
cedente edizione uno riapparisce in questa terza edizione
come Introduzione, poiché mi è sembrato che la lettura
potrà esserne più utile se precederà. Nato infatti, due
anni prima di questi Fondamenti, come saggio introdut¬
tivo a uno studio iniziale della fdosofia morale e in par¬
ticolare del pensiero rosminiano sul principio della morale,
questo scritto contiene Vesposizioni, di alcune idee che sono
il presupposto della posteriore trattazione molto stringata
della filosofia del diritto ; dove sono riprese in modo forse
anche troppo sommario.
In questa edizione la trattazione è accresciuta di due
nuovi capitoli ; il VII, Lo Stato, che sotto forma di co¬
municazione sul tema II concetto dello Stato in Hegel
fu materia di una mia conferenza tenuta al Congresso
hegeliano di Berlino il 21 ottobre 193 1 »’ e l Vili, La
Politica, apparso la prima volta a capo dell Archivio di
Studi Corporativi di Pisa.
Roma, 7 gennaio 1937.
G. G.
I FONDAMENTI
DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
INTRODUZIONE
ALLO STUDIO DELLA FILOSOFIA PRATICA
O DELLA VITA MORALE
i. — Lo spinto come attività pratica.
Non è possibile concepire mondo morale senza conce¬
pire lo spirito umano come attività creativa: perchè il
mondo morale, ossia l’insieme di tutte le azioni che si
presentano al nostro spirito come suscettibili di una
valutazione che le approvi o le disapprovi, può essere
valutato soltanto se si considera come dovuto assoluta-
mente all’attività dello spirito: come quello che è quale
lo spirito lo ha voluto. Noi possiamo pensare, fino a un
certo punto, che lo spirito presupponga la realtà, alla
quale esso dovrà rivolgersi per farla oggetto di esperienza,
di analisi, di speculazione; ma allora considereremo lo
spirito quasi meramente teoretico, rispecchiante in sè
passivamente la realtà, e reso quindi soggetto di una
determinata conoscenza, non da una propria libera e nep¬
pure spontanea iniziativa, ma da un potere estrinseco, che
viene infine ad essere il vero autore della conoscenza e del
valor suo. Questa medesima concezione per altro di una
forma spirituale semplicemente teoretica, — quantunque
sia la maniera più comune e in apparenza meno contesta¬
bile di concepire il rapporto dello spirito con la realtà
che esso conosce, — quando ben si rifletta sulla natura
propria del conoscere si manifesta assurda. Perchè nè
anche il conoscere si può considerare una semplice passi¬
vità dello spirito: il quale, se fosse, per un momento,
passivo, cesserebbe per ciò solo di essere spirito, per di-
4
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
ventare un qualsiasi ente materiale, che non si modifica
se non per l’azione esercitata su di esso da altri enti ma¬
teriali. Lo spirito che conosce, è invece lo spirito autore
della propria conoscenza. La quale non è semplice modi¬
ficazione del soggetto conoscente, o, come una volta si
diceva, un accidente estrinseco all’essenza dello stesso
soggetto, come è un accidente estrinseco alla natura
d’ogni ente materiale qualsiasi modificazione che sia arre¬
cata nel suo modo di essere da una causa operante su di
esso dal di fuori. Il soggetto che conosce, si realizza nella
sua conoscenza. L’esser mio nell’atto che conosco non è
altro che il mio stesso conoscere. E viceversa, il mio co¬
noscere non è un conoscere che si possa astrarre da me,
poiché esso non è altro che l’atto mio, cioè quell’atto in
cui io, in quanto conosco, sono tutto quel che sono. La
mia presenza nel mio conoscere (che è ciò che si dice
« aver coscienza del proprio conoscere »), il non potersi
concepire un vero e proprio conoscere se non come cono¬
scere di qualcuno, dimostra che anche quell’atto, in cui
consiste la conoscenza, non è l’atto di una presunta realtà
agente sul mio spirito, ma l’atto stesso del mio spirito. Atto
assoluto del mio spirito: dovuto cioè totalmente ad esso,
per la evidente ragione che, se gli fosse dovuto solo par¬
zialmente, esso allora, per quella parte per cui rimarrebbe
atto della realtà estraspirituale, non sarebbe conoscenza.
Tutto ciò significa che una forma meramente teoretica
dello spirito non è concepibile, poiché non è concepi¬
bile spirito che non sia autore del suo proprio essere.
Nè si può sfuggire a questo necessario concetto dello
spirito autore del proprio essere {causa sui, per usare una
celebre frase scolastica) degradando lo spirito, come fanno
i naturalisti e tutti i materialisti, dichiarando apparenza
fallace la coscienza che abbiamo di essere noi a conoscere,
e d’una conoscenza perciò tutta opera nostra; poiché,
movendo dal supposto che la realtà sia quella che è indi¬
pendentemente dal nostro conoscere, è giocoforza pensare
INTRODUZIONE
5
che il nostro spirito è condizionato da essa realtà, e da
essa indotto a conoscere come conosce. Non si può, perchè
questo stesso supposto, della realtà indipendente dal no¬
stro spirito e operante su di esso, si regge, com’ è ovvio,
su un nostro ragionamento, e quindi su un nostro modo di
conoscere la realtà stessa; il quale può avere un valore
soltanto se noi siamo in diritto di attribuire un valore
al nostro conoscere; laddove non potremmo attribuire ad
esso nessun valore, se lo dovessimo considerare, qualun¬
que fosse, effetto necessario di cause indipendenti da
noi. E però quel supposto è logicamente impossibile.
Chi giunga dunque ad intendere la soggettività del co¬
noscere, o il conoscere come atto dell’ Io e quindi la libertà
dell’ Io in esso, non può fermarsi al concetto di una atti¬
vità spirituale teoretica, e vede una contraddizione tra
il nome attività e l’aggettivo teoretica.
2. — La realtà morale.
Ma anche chi si arresti al concetto di uno spirito teore¬
tico come spirito che presuppone la sua realtà, ed è da
essa condizionato, vedrà chiaramente che oltre questo
spirito bisogna pure ammetterne un altro, il quale non
presuppone, anzi crea la sua realtà: una realtà, che non
ha un’esistenza sensibile, ma esiste non meno certa¬
mente di tutte le cose sensibili; una realtà da cui ci sen¬
tiamo compenetrati in tutti gl’ istanti della nostra vita,
e che fa vibrare continuamente tutte le fibre del nostro
I essere spirituale: il bene o il male, che non vediamo sol¬
tanto attorno a noi, per tutto il mondo a cui si estende
la nostra esperienza personale e storica, ma dentro di
noi, per tutti gli atti della nostra vita, ciascuno dei quali
o ci apparisce quale doveva essere, e però buono, o infe¬
riore alla legge cui si sarebbe dovuto conformare, e però
cattivo. E chi dubita di ogni giudizio morale e sospetta
che la distinzione tra bene e male non abbia fon-
6
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
damento fuor del costume sociale, comunque questo a
sua volta si sia generato, egli stesso non può a meno di
contraddirsi, quando, sottrattosi a ogni vincolo sociale e
raccoltosi nella solitudine della propria coscienza, non
potrà nè pur meditare senza tener conto di nessuna legge,
senza sforzarsi di fare del suo meglio per stabilire a se
medesimo la propria dottrina, senza sofismi, senza cavilli
ch'ei si creda in grado di eliminare, per serbar fede alla ve¬
rità e per non ingannare se stesso. Giacché, se è vero quel
che avvertiva Cicerone, che la giustizia è talmente necessa¬
ria che gli stessi briganti possono disprezzare quella dello
Stato, ma sentono poi il bisogno di rispettarne una per loro
conto », è anche più vero che chi non arriva a rendersi
ragione dell’unità spirituale onde la sua persona è acco¬
munata, in ogni società, a quella di tutti gli altri, può non
riconoscere legge di sorta nei rapporti tra sè e gli altri,
ma resterà sempre legato a una legge non meno ferrea
nei rapporti che pur dovrà conservare con se stesso !
Ogni forma di scettiscismo morale si riduce alla nega¬
zione di una certa forma di moralità; e quegli stessi che,
naturalisticamente, negano, non la moralità, ma la con¬
dizione della moralità, che è la libertà, facendo d’ogni
umana azione la conseguenza necessaria o dell’assetto
sociale e della individuale educazione, o dell’operare ine¬
luttabile di tendenze, istinti o forze della natura; costoro
non mancano mai di fare alla loro dottrina quelle ecce-
1 « Atque iis etiam qui vendunt, emunt, conducunt, locant
contrahendisque negotiis implicantur, iustitia ad rem gerendam
necessaria est, cuius tanta vis est, ut ne illi quidem, qui male¬
ficio et scelere pascuntur, possint sine ulla particula iustitiae
vivere. Nam qui eorum cuipiam, qui una latrocinantur, furatur
aliquid aut eripit, is sibi ne in latrocinio quidem relinquit locum ;
ille autem, qui archipirata dicitur, nisi aequabiliter praedam
dispertiat aut interficiatur a sociis aut relinquatur; quia etiam
leges latronum esse dicuntur, quibus pareant, quas observent».
Cic., De off., II, li, 40.
INTRODUZIONE
7
zioni, che la rendano pensabile; e chi nega la responsa¬
bilità dei figli, l’addossa ai genitori; e chi trova che le
cause della delinquenza van ricercate non nel delinquente
ma nella società, ascrive tutta la colpa a quelli che poi
potrebbero mutare l’ordinamento sociale, sol che voles¬
sero ; e chi riversa tutta 1 ’ origine d’ ogni determinazione
umana sulla natura, non rinunzia a farci un debito, se
non altro, di aderire alla sua dottrina !
Si discute insomma di quel che sia bene o male, ma
nessuno veramente può discutere dell’esistenza del bene
e del male, nè dell’esistenza d’uno dei due elementi della
realtà morale. Giacché rottimista non nega il male, ma
l’assolutezza di questo: ossia, ne fa un elemento del bene;
come il pessimista, al contrario, fa del bene un elemento
del male; e il loro contrasto consiste soltanto nel modo
di concepire il risultato complessivo della vita.
E se una realtà morale esiste, essa esiste in quanto
l’uomo la fa esistere. Il suo carattere morale consiste
appunto in questo suo esistere come prodotto dello spi¬
rito umano. E se si dice volontà lo spirito come attività
produttiva della sua realtà, è chiaro che chi dice bene o
male, dice volontà creatrice del bene e del male. Creatrice,
perchè ciò che si dice bene o male è totalmente prodotto
dalla volontà ; chè, altrimenti, non potrebbe approvarsi to¬
talmente come bene, nè riprovarsi come male. La volontà
creatrice è la volontà che si dice libera, come quella che
non si può pensare prodotta, essa stessa, da nulla di di¬
verso da lei. Non si può pensare altrimenti che ex se nata.
3 ■ — Identità di attività pratica e realtà morale.
Può parere quindi che la realtà morale (bene o male)
risulti da una doppia produzione: i) produzione che la
volontà fa di se stessa; 2) produzione che questa volontà,
così prodottasi, farebbe della realtà morale.
Ma non bisogna impigliarsi in distinzioni verbali ed
8
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
astratte. Le due produzioni sono una produzione sola,
perchè il bene o il male non è l’effetto dell’azione buona
o cattiva, ma la stessa azione. La consolazione che la
nostra parola amorevole apporta all’afflitto non è bene,
in senso morale, per quell’effetto a cui esso riesce nel¬
l’animo del consolato, ma in quanto quell’effetto è pro¬
dotto dall’azione del consolatore, e rappresenta la concre¬
tezza di quest’azione. Così l’omicidio è giudicato un male
non in quanto si guardi all’effetto, che è la morte della
vittima, e facendo astrazione dell’azione omicida; sì guar¬
dando a quest’azione che si compie in quella morte. Nè
l’effetto si può staccare dalla causa, nè la causa dall’ ef¬
fetto; perchè non c’è consolazione senza che un dolore
sia alleviato, nè c’ è un omicidio senza la morte di un
uomo. Ma causa ed effetto sono un fatto solo, l’atto
compiuto dalla volontà.
E l’atto della volontà non è altra cosa dalla volontà,
quasi la volontà fosse sempre la stessa volontà, compia
o non compia un certo atto. La volontà è quella che
è nell’atto suo; e così si dirà che Tizio è galantuomo sol¬
tanto avendo l’occhio alle azioni che egli compie, come
quelle in cui si realizza il carattere morale della persona.
La volontà non è una sostanza concepibile di là dagli atti
in cui si manifesta. Il suo essere è il suo stesso manife¬
starsi ne’ suoi atti. E se si dice che gli atti son molti,
mentre la volontà è una, egli è perchè non ci contentiamo
di distinguere i vari momenti della nostra attività volitiva ;
ma li consideriamo, per un errore di cui ordinariamente
non abbiamo l’occasione di avvederci, esistenti ciascuno
per sè, laddove essi non sono se non tutti connessi tra loro
intimamente nella realtà unica del nostro volere.
Che se volere e atto di volere sono lo stesso, quella pro¬
duzione, onde il volere produce se stesso, produce il suo
atto. Una volontà che non voglia, non è volontà. Una
volontà che non v «glia niente (nessun atto determinato),
non si determina come nessun atto, non vuole.
INTRODUZIONE
9
4. — L’attività pratica.
La volontà, dunque, è sì creatrice della realtà morale,
ma in quanto creatrice di se medesima come realtà morale.
Per fare il bene deve fare se stessa; perciò non può fare
il bene immediatamente ; perciò non ogni volontà può fare
ogni bene; benché, — se essa è volontà, e il bene è bene,
— debba pur farlo, e però poterlo fare. Ma per fare il
bene, ogni bene, essa deve svilupparsi, formarsi, costi¬
tuirsi: infatti in questa sua formazione essa verrà realiz¬
zando ogni bene. Nè potrà essere aiutata da altri a realiz¬
zarsi; nè tanto meno costretta. Un’educazione che co¬
stringa o tragga comunque al bene, può ottenere l’esecu¬
zione materiale, l’effetto astratto del bene, della buona
volontà, non l’atto in cui il bene consiste; come non c’ è
sapienza di maestro che possa sostituirsi al libero atto
creatore dell’ intelligenza dello scolaro per fargli capire la
più semplice delle proposizioni. Prima della volontà non c’è
nulla che possa conferire alla produzione del bene, che
spetta alla volontà di produrre; nè dopo di essa c’ è bene
che sopravviva. Tutto un passato eroico può essere can¬
cellato da un istante di viltà.
Tutto è chiuso, dunque, nel processo della volontà. La
quale infatti non è qualcosa d’immediatamente posto
come è il libro, già tutto stampato, nelle mani del lettore ;
ma è un processo, com’ è il libro sotto la mano dell’ autore
che lo viene componendo, dov’ è una cosa sola con quella
mente, che potrà poi dal lettore essere ammirata o meno.
5. — Il concetto dialettico della realtà morale
come unità di bene e di male.
La realtà morale, s’ è detto, è il bene e il male. Dunque,
la volontà è bene e male insieme, ossia ora bene, ora male ?
La volontà è indubbiamente principio dell’uno e dell’al-
IO
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
tro; ma è pur chiaro che non potrebbe nello stesso tempo
e sotto lo stesso rispetto. E perchè si possa intendere come
produca la duplice fenomenologia del bene e del male,
bisogna distinguere tra volontà e volontà. Distinzione,
alla quale può spianare la via l’osservare che il bene e il
male sono bensì due opposti; ma, appunto perchè tali,
formano insieme una unità, che non è divisibile ne’ due
termini di cui consta.
Il bene certamente non è il male, anzi il suo contrario;
ma non immediatamente, quasi che da una parte ci fosse
il bene e dall’altra il male, a quel modo che, guardando
uno scritto, si vede il nero che non è bianco, e il bianco
che non è nero, ciascuno per sè, simultaneamente. No.
Questo bianco e questo nero nella loro simultaneità non
sono veri contrarii; perchè a considerarli nella loro si¬
multaneità (non nella successiva costruzione che facciamo
noi dello spazio in cui essi sono l'uno accanto all’altro),
essi sono ciascuno se stesso, senza nessun rapporto al¬
l’altro, e quindi scevro d’ogni rapporto di contrarietà.
Il bene invece sta al male al modo di quell’opposto che
si sostituisce al suo opposto: come il nero si sostituisce
al bianco nell’atto dello scrivere. Giacché il bene è un
processo, come s’ è veduto; è l’atto della volontà. E que¬
st’atto, come ogni atto, è in quanto prima non è: il suo
essere è il cessare del suo non-essere; e tanto è, quanto
cessa di non essere. Sicché l’essere dell’atto volitivo, che
è realizzazione del bene, è intanto cessar di essere del male ;
onde il bene è aderente al male come all’elemento neces¬
sario della sua propria esistenza. Se male non ci fosse,
noi potremmo concepire un bene già tutto realizzato,
senza volontà; un bene in sè, che renderebbe impossibile
la bontà d’un uomo, se un uomo è buono volendo il bene.
Un bene tutto realizzato sarebbe, dunque, la negazione
del bene: ossia, appunto, il suo contrario.
Orbene, se questo è il rapporto del bene col male, se
il male non è altro che quel contrario del bene, di cui que-
INTRODUZIONE
II
;sto trionfa in perpetuo nel suo processo di attuazione, la
volontà del male non può essere se non la non-volontà del
bene, la quale non è concepibile altrimenti che in funzione
della volontà del bene. Solo in quanto c’ è una volontà
del bene, c’ è la corrispettiva volontà del male, che è
quella che la prima vince ed annulla. Il che, evidente¬
mente, non significa che, essendoci la volontà, il male
e la non-volontà non ci sieno, perchè già annullati. L’esserci
della volontà importa costantemente il generarsi della
volontà; la quale non è perciò mai generata; nè il suo
contrario pertanto è mai distrutto. E la realtà eterna dei
male come della non-volontà è immanente all’eterna vita
del bene.
Ma così si è risposto alla domanda, se la volontà sia
male insieme e bene. La volontà è bene; ma è pure male,
in quanto essa, oltre ad esser se stessa, come atto che è,
e quindi perpetuo processo di autoproduzione, è pure
il contrario di se stessa. Si può dire che volere sia bene,
e non volere sia male, a patto di non considerare astrat¬
tamente il non-volere come qualcosa che stia per sè,
iuori del volere, bensì come la base dello stesso volere.
6 . — Critica del concetto astratto del male.
Contro questo concetto del male ricavato dalla diretta
analisi della nostra comune considerazione della coscienza
morale, ma che richiede senza dubbio una capacità non
comune di muoversi attraverso concetti rigorosi, si op¬
pone che il male non è qualche cosa di astratto, come
parrebbe dalla precedente analisi, ma una realtà storica,
concreta: non è il lato negativo del volere attualmente
voluto, ma un attualmente voluto, anch’esso, allo stesso
modo che il bene. E come ci sono gli uomini buoni, ci
sono i cattivi; o almeno ci sono le azioni cattive accanto
alle buone.
Questa opposizione nasce da un errore antico e sempre
12
X FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
vivo, anzi quasi costituzionale per la mente umana, e
però dei più difficili a sradicare, quantunque non meno
ridicolo di quello che commise lo sciocco Mancini, di cui
racconta il Poggio nelle sue Facezie. Costui soleva no¬
leggiare degli asini per trasportare carichi di grano. Un
giorno che tornava stanco dal mercato montò sul mi¬
gliore di questi asini, e quando fu presso a casa sua, e
volle contare quanti ne aveva davanti, trovò con gran
suo dispiacere che gliene mancava uno. Non contava
infatti l’asino che aveva sotto. Lasciò gli asini alla moglie,
che li restituisse ai padroni, e in grande affanno, sempre
sull’asino, rifece tutta la via in cerca dell’asino smarrito,
guardando per tutto e interrogando quanti incontrava.
Naturalmente gli toccò di tornarsene alla fine indietro
senza aver trovato il suo asino, piangendo la sua cattiva
sorte. E solo quando fu a casa, che era già notte, e la
moglie lo confortò a smontare, s’accorse dell’asino che
aveva con tanta pena cercato. — Chi, infatti, vede il
male senza vedere il bene in cui quel male è vinto e annul¬
lato, vede gli asini che ha davanti, non quello su cui è
montato: vede la volontà opposta alla sua, e che egli
svaluta, non la propria con cui svaluta l’altra, e senza di
cui quest’altra, come svalutata, non ci sarebbe. In verità
non è possibile accorgersi del male che c’ è a questo mondo
senza realizzare un atteggiamento spirituale moralmente
superiore al male. Poiché non si può constatare come un
qualunque fatto indifferente della natura; ma si giudica;
e si giudica con una riprovazione, che è una ribellione
della coscienza, ossia un atto di buona volontà. Sicché
il male non è, non può essere, male per se stesso. Quando
il male è male, egli è già morto nella coscienza purifica¬
trice che lo giudica.
Che se talvolta il giudizio del male va a sua volta giu¬
dicato come la manifestazione d’un maligno gusto, che
assapora la dolcezza dell’altrui inferiorità, anche allora
il male è risoluto e annientato nel bene; non certo nel
INTRODUZIONE
13
giudizio maligno, bensì nel giudizio di chi sente la ma¬
lignità di quel tale giudizio.
7. — V errore dell' etica intellettualistica.
La volontà dunque è concepibile, come creatrice del
mondo morale, soltanto se si pensa creatrice del bene; e,
come creatrice del bene, creatrice di se stessa. Una teoria
morale, la quale distingua il bene dal volere, e ne faccia
un presupposto del volere buono, come le teorie intel¬
lettualistiche della cognizione distinguono la verità dalla
mente che la conosce, e ne fanno un antecedente di essa,
è una teoria che nega già il carattere essenziale del suo
oggetto.
D’altra parte, una teoria morale fondata sul con¬
cetto di questo essenziale carattere del mondo morale,
non era possibile finché la realtà fu concepita dalla filo¬
sofia come realtà naturale: quella realtà che lo spirito ha
innanzi a sé e di cui egli, per un verso, fa parte, ma a
cui per un altro verso è contrapposto quale spettatore
(ne fa parte esso stesso come essere naturale; e le è con¬
trapposto come mente che la conosce). Lo spirito, in
questa concezione, vede fuori di sé tutta la realtà e il suo
prodursi: e al bene, se pur 1’ ha da intendere come qual¬
cosa avente anch’esso una sua realtà, non può assegnare
un posto se non in quel mondo, che ha di contro e di
cui egli è spettatore. Il bene, cioè, non lo potrà conce¬
pire se non come oggettivo : non creato, anzi presupposto
dallo spirito. Il quale da parte sua, non potrà farlo,
ma scoprirlo, e conformarvisi. Scoprirlo, sopra tutto.
8 . — L’etica greca eudemonistica.
Questo il carattere più rilevante dell’etica greca; alla
quale sfuggì sempre la vera natura dell'atto morale,
perchè alla filosofia greca sfuggì del tutto la praticità 0
creatività dello spirito e la realtà apparve in tutte le sue
14 I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
forme, come oggetto di contemplazione spirituale, e
1’ ideale umano quindi come un conformarsi a questa
realtà in sè. Per questo rispetto l’ópoicoan; dew ( Teeteto ,
176B) di Platone (che è essere massimamente felice es¬
sendo massimamente giusto), ricordata dal Rosmini *, non
differisce punto daH’dQftf| aristotelica, che non è altro
che abito congiunto con la retta ragione, ossia con la
saggezza \cp0ovr1a15), onde noi ci rendiamo capaci di sce¬
gliere il meglio per la nostra felicità; nè dall’ascetica
cinica, nè dall’edonistica cirenaica, nè dalle dottrine deri¬
vatene stoica ed epicurea, concordi in fatto nel racco¬
mandare 1’ ópoXoyov[xév(05 tt) cpuoei tfl v -
Tutta quell’etica è un’etica eudemonistica, la quale,
constatata la naturale tendenza dell’uomo al viver felice,
riduce l’ideale alla sapiente ricerca di questa felicità,
che non è lo stato che l’uomo deve instaurare, anzi quello
a cui deve tornare, poiché per insipienza se ne è disco¬
stato (donde il mito dell’età dell’oro punto di partenza,
non punto di arrivo della storia umana) : stato esistente
in sè, vuoi come legge di natura, vuoi come norma ideale :
presupposto, in ogni caso, della stessa attività spirituale.
Il più alto ideale della moralità antica è la semplice giu¬
stizia. E la giustizia non è instaurazione di un ordine
nuovo, ma rispetto e conservazione di un ordine naturale
o ideale, preesistente all’atto che lo riconosce.
L’etica eudemonistica è intellettualistica. Il suo bene non
è 1’ oggetto di volontà (che produce il proprio oggetto) ;
ma oggetto d’intelligenza (che presuppone, in quanto
pura intelligenza, il proprio oggetto). Quindi anche è
un’etica legalistica. Il suo bene è legge, come legge astratta:
legge presupposta dalla volontà, che deve eseguirla. Legge
ideale per Platone, naturale per i Cinici, per i Cirenaici,
per gli Stoici, per gli Epicurei, e già per i Sofisti: sempre
una determinazione trascendente l’atto morale: quel nu-
1 Princ. della morale, ed. Gentile 1 p. 117.
INTRODUZIONE
15
QaSeiynot di cui parla Platone nello stesso Teeteto, dcìov
6Ì)Sai(xovéatarov (176E), un esemplare di vita divino e
colmo di beatitudine. Divino perchè beato.
9. — L’etica cristiana e Kant.
Il punto di vista proprio della morale è conquistato'
col Cristianesimo. Il quale scopre, si può dire, la potenza,
e però la natura dello spirito, come attività creatrice del
mondo che è suo, svalutando la legge, lettera morta
fuori dell’amore, che è la vita stessa dello spirito; e con¬
trappone lo spirito alla carne, alla natura, governata da
quella legge della felicità, che solo conosceva l’etica greca ;
e prega Dio che si faccia la sua volontà (fiat voluntas tua!)
come quella attinge la sua realtà nella volontà umana,
fuori della quale è volontà che non salva l’uomo, non
crea il mondo morale.
Di questa nuova etica, che si può dire l’etica dell’amore
di contro all’etica della saviezza, o l’etica dello spirito di
contro all’etica della natura, e insomma la vera etica,
intuita e proclamata dal Cristianesimo, il primo inter¬
prete schietto nella storia della filosofia è Emmanuele Kant.
Egli pel primo vide che la volontà non può avere un bene
da compiere, ossia una legge, se non ha in sè questa legge :
se non è autonoma. Autonomia che nessun filosofo mai
aveva affermato (se ne togli un accenno in Giordano
Bruno, non coerente però alla sua filosofia generale),
benché dall’antichità si fosse richiesta la libertà del vo¬
lere, come condizione (ratio essendi) della moralità, e
l’esigenza si fosse vivamente acuita nelle dispute cristiane
intorno al domma della grazia. Il quale, mentre mirava
a sottrarre l’uomo al dominio della natura, non riusciva
a unificare l’umana individualità della persona con que¬
sto soprannaturale principio spirituale e liberatore.
La libertà, di cui si parla prima di Kant, è ben altra
cosa dall’autonomia kantiana, quantunque le due parole
l6 I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
*
possano parere sinonime, e possano infatti adoperarsi l’una
per l’altra. Quella libertà è la libertà del volere che è
libero perchè ha di fronte la legge, e può conformarvisi o
dissentirne. L’autonomia è la libertà del volere che è li¬
bero perchè non ha di contro a sè, ma in sè la legge, e non
può non conformarvisi se realizza se medesimo. Quella
libertà si lega perciò al concetto della dualità irriducibile
di bene e di volontà: l’autonomia invece è l’affermazione
dell’unità radicale e inscindibile dei due termini. La
vecchia libertà è attributo di uno spirito che non è spi¬
rito, perchè ha fuori di sè il bene, lo presuppone, e però
non può produrlo; laddove l’autonomia è l’attributo del
vero spirito.
L’autonomia di Kant però non va intesa, come l’in¬
tende il Rosmini, quasi l’autonomia del singolo. Nulla
più contrario allo spirito della morale kantiana.
Il Rosmini stesso rileva che il carattere essenziale
della legge morale, secondo Kant, è la necessità e univer¬
salità: e quindi avrebbe dovuto presumere che Kant non
potesse considerare propria del volere individuale, ossia
di un volere contingente e particolare, una legge siffatta.
La volontà, di cui parla Kant, è, egualmente, la volontà
universale; ossia, la volontà bensì dell’ individuo, ma in
quanto universale, cioè determinato secondo una legge
che possa concepirsi come legge di ogni essere ragionevole :
in quanto, in una parola, volontà razionale. La quale
non è un fatto, come dice il Rosmini 1 : perchè la sua
razionalità o universalità significa appunto che essa è una
legge.
io. — L'etica rosminiana.
Nè è esatto tacciare la morale kantiana di soggetti¬
vismo, come ha fatto il Rosmini; perchè l’autonomia
kantiana e la negazione kantiana dell’eudemonismo ha
1 Op. cit., p. 99.
INTRODUZIONE
17
per l’appunto il significato medesimo dell'oggettività rosmi-
niana e della rosminiana polemica contro il soggettivismo
morale. Giacché non bisogna lasciarsi trarre in equivoco
dalle parole, che sono adoperate spesso da diversi filosofi
con significati opposti. Il soggetto, da cui il Rosmini giu¬
stamente non vuole lasciar dipendere la norma della
condotta, non ha che fare col soggetto kantiano. Il quale
è, come s’ è accennato, la volontà avente una forma uni¬
versale; laddove il soggetto, di cui parla il Rosmini, si
contrappone alla volontà universale, perchè è 1’ Io che
si determina di fatto, com’egli dice 1 « nell’ordine delle
realità » secondo certe leggi che escono dalla natura dello
stesso Io, e si riassumono nell'istinto di conservarsi, che il
Rosmini denomina istinto della felicità : tendenza naturale,
di cui dice giustamente che « non ha da far cosa alcuna
colla moralità»; che anzi «questo istinto della felicità è
propriamente il contrapposto dell’elemento morale, ap¬
punto a quel modo come il soggetto è di natura sua il con¬
trapposto dell’oggetto ». Non meno rigorosamente di lui
il Kant aveva contrapposto il principio universale del-
l’amor proprio, ossia della propria felicità, come fonte
di tutti i principii materiali, e però empirici, soggettiva,
particolari, della condotta, alla volontà principio di legis¬
lazione universale, che nella forma della universalità
trova il fondamento della sua necessità.
Ma fermiamoci sul Rosmini, la cui dottrina si presta
a utili osservazioni. La posizione del Rosmini, per questo
rispetto, è identica a quella del filosofo tedesco, da lui
criticato; come può intendere chi si rifaccia brevemente
dalla teoria del conoscere, dalla quale muove infatti la
filosofia del Rosmini. Il quale pubblicò nel 1830 il
Nuovo Saggio sull’origine delle idee, e l’anno dopo dalla
dottrina del conoscere, stabilita nel Nuovo Saggio, de¬
dusse la sua etica nell’operetta Principii della scienza
1 Op. di., p. 12.
Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto.
2
i8 I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
morale-, completata nel 1837 con una Storia comparativa
e critica de’ sistemi intorno al principio della morale,
così come aveva nel Nuovo Saggio premessa all’esposi¬
zione della propria teoria una storia di quelle che erano
state proposte prima di lui *.
Nel Nuovo Saggio Rosmini riconobbe la grande impor¬
tanza e novità del problema del conoscere, com’era stato
posto da Kant. Il quale vide profondamente che l’espe¬
rienza, come esperienza sensibile, o insieme delle sensazioni
che l’anima avrebbe del mondo esterno, ossia come insieme
di fatti particolari e contigenti, non può spiegare l’origine
del conoscere, sistema di nessi necessari ed universali; ci
potrà dare la materia del conoscere, non la forma, che il
nostro conoscere riveste nei giudizi in cui esso si determina.
Questi nessi, onde in ogni giudizio si congiungono tra
loro variamente i due termini del giudizio stesso, sono quei
concetti, con cui noi elaboriamo la materia della sensa¬
zione, e che Kant chiama categorie. Le quali sono le forme
in cui si conoscono tutti i fenomeni dell’esperienza: forme,
non contingenti, come la variabile materia della cogni¬
zione, ma necessarie e costanti nel variare delle sensa¬
zioni, a cui si riferiscono. Nè particolari e soggettive,
come le sensazioni, ma universali, e, in quanto tali, prin¬
cipio d’ogni oggettività del nostro conoscere.
Bisogna distinguere tra quel fantastico elemento ogget-
1 I principii della scienza mortale furono pubbl. la prima volta
a Milano, Tip. Pogliani, nel 1831; e dallo stesso tipografo
riprodotti come prima parte del volume VII delle Opere edite e
inedite con una « Prefazione alle Opere di filosofia morale » nel
1837, volume compiuto l’anno stesso con la Storia comparativa.
I due scritti furono ristampati insieme nel voi. X delle Opere
nell'ed. Batelli e C. Napoli, e in una 3» edizione « eseguita sul¬
l’esemplare della seconda usato ed annotato dall’autore », ad
Intra dal tip. Bertolotti nel 1867. Furono poi compendiati nel
Sistema Morale, con cui si apre la Filosofia del diritto, Milano,
tip. Boniardi Pogliani, 1841.
INTRODUZIONE
IQ
tivo, che meglio direbbesi, come avverte il Rosmini stesso,
cstrasoggettivo, e che è quel presunto mondo esteriore
al soggetto, che per mezzo dei sensi provocherebbe il
sorgere delle sensazioni dello spirito, ma non è niente
affatto oggetto, se per oggetto s’intende il termine del co¬
noscere (poiché se esso c’ è, come Kant e Rosmini presu¬
mono che ci sia, non può essere che ignoto, estraneo del
tutto a ogni rapporto col soggetto, e quindi al di là di
tutta la sfera del conoscere); e il vero e reale elemento
oggettivo, che è quel che noi conosciamo come non subor¬
dinato alla nostra particolare soggettività, ma determi¬
nato in una forma universale, e però valida per tutte le
menti; e quindi correlativo bensì a una mente, ma non
alla mente soggettiva; o anche, se si vuole, correlativa
al soggetto, ma non al soggetto limitato e particolare.
Di contro al falso oggetto fantastico le categorie kan¬
tiane sono soggettive, perchè sono non l’ignoto, ma il
noto, anzi la stessa conoscibilità di tutto. Se non che la
loro soggettività coincide perfettamente con l’oggetti-
vità dell’oggetto vero e reale.
Il Rosmini nel Nuovo Saggio accetta la soluzione kan¬
tiana, ma con due modificazioni, che a lui sembrano so¬
stanziali: e tali gli possono sembrare perchè anche lì
egli non si è reso conto esatto del pensiero di Kant. Una
di esse è che le categorie, o forme dell’ intelletto che
conosce, non sono dodici, quante ne contava Kant, ma
una sola: l’idea dell’essere. L’altra, che la categoria non
è soggettiva, ma oggettiva: non è l’intelletto, ma l’oggetto
che l’intelletto intuisce. Tralasciamo la questione del-
l'unità o molteplicità delle categorie, che qui non
interessa; per ciò che s’attiene all’oggettività dell’ idea
dell’ essere, tutti gli sforzi che il Rosmini fece sempre nel
Nuovo Saggio e in tutte le sue opere posteriori per
distaccare questa idea dalla mente e contrapporgliela
come semplice oggetto, stanno a significare soltanto
la preoccupazione di garentire all’elemento formale e
20
I fondamenti della filosofia del diritto
però costitutivo del sapere un valore superiore al
soggetto inteso come soggetto finito: quella medesima
preoccupazione, da cui era stato animato Kant nella
sua opera di restaurazione, dopo la demolizione scet¬
tica di David Hume. Anche Kant vuol additare nella
forma della cognizione il principio della sua ogget¬
tività; e se ne fa una funzione dello stesso intelletto, anzi
dell’ Io che si attua nei giudizi dell' intelletto, distingue
radicalmente questo Io dall' Io empirico, ossia dal con¬
cetto che l’uomo può far di se stesso, come essere finito,
quale gli vien fatto di conoscersi nell’esperienza. Giacché
quest’io empirico suppone quell’altro Io; e se egli è finito
e particolare, è l’altro a dichiararlo tale, poiché quest’al-
tro, a sua volta, è infinito e universale. Dire che l’in¬
telletto intuisce soltanto l'idea, che è la forma d’ogni cogni¬
zione, non basta a determinare un pensiero diverso da
quello di Kant, finché di questo intuito non si faccia una
forma di esperienza: ciò che Rosmini naturalmente non
può fare, perchè l’esperienza anche per lui presuppone
questo intuito, che per 1’ intelletto umano è la condizione
d’ogni conoscenza sperimentale. E allora 1 ’ intuito rosmi-
niano è una parola, che, se ha un senso, non può signi¬
ficare quel che il Rosmini presume: un oggetto antece¬
dente alla stessa intuizione intellettuale; ma la semplice
oggettività del termine I ìtuito dalla mente umana: ossia
il valore universale e necessario del contenuto della mente
che intuisce.
In conclusione, per 1 ’ uno come per 1 ' altro filosofo il
valore della cognizione non si spiega se non si ammette
una condizione dell’esperienza, non deducibile perciò
dalla esperienza, ma presupposta da questa fin dal suo
inizio, e però a priori: condizione che è la forma della
cognizione, la quale da essa attinge il suo valore oggettivo
(universale e necessario), laddove dall’esperienza può
ricevere soltanto la materia. Il mondo, dunque, quale noi
lo conosciamo, sì per l’uno e sì per l’altro, non è un mondo
INTRODUZIONE
21
che ci possa esser dato dalla esperienza, ma un mondo in
cui è immanente cotesta oggettività, che è la luce del
nostro spirito. È un mondo inconcepibile senza lo spi¬
rito, poiché è retto dalle leggi stesse dello spirito. Tutto
il vecchio mondo naturale, materialisticamente concepito
come l’antecedente dello spirito, si manifesta un’ illusione
della mente inconsapevole della propria attività costrut¬
tiva.
Quando dalla teoria del conoscere passa alla teoria
dell’agire morale, il Rosmini si trova già preceduto egual¬
mente da Kant; il quale, negata la possibilità, assurda,
di ricavare la necessità e universalità della legge morale
da fatti empirici, come tutti quelli edonistici, utilitari
e in generale eudemonistici, che sono semplici fatti,
e si constatano senza poter mai valere come norme
imperative, non poteva riporre il principio della le¬
gislazione universale valida, come necessaria, nella ma¬
teria dell’esperienza morale, ma nella forma, per cui
tutta quella materia assume un valore morale. Che l’uomo
aspiri alla felicità è un fatto di esperienza; e si determina
in un’ infinità di aspirazioni, che sono altrettanti fatti,
contingenti tutti e particolari, e in questo senso sogget¬
tivi, da nessuno dei quali, nè dalla totalità dei quali
potrà mai scaturire niente di universale, necessario, og¬
gettivo, come dev’essere la legge morale. Anche il do¬
vere, che investe il fatto, trasformandolo in atto di buona
volontà, non può essere se non forma : la volontà stessa,
non in quanto questo o quel voluto, bensì come volere
nella sua forma universale.
Il Rosmini dalla concezione dello spirito conquistata
nel Nuovo Saggio doveva essere condotto sulla stessa via,
movendo in cerca del principio morale. Giacché, una
volta inteso che nella realtà conosciuta nell’esperienza
non v’ è posto per niente di necessario e universale, non
è più possibile pensare che la moralità abbia il suo
principio in quel mondo che conosciamo mercè l’espe-
22
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
rienza. Anche per lui questo principio doveva risiedere
nella forma dello spirito come attività morale, come
volontà, nella forma necessaria ed universale della vo¬
lontà. E l’essere intuito dall’ intelletto non è per lui
soltanto il fondamento, o la condizione del conoscere,
bensì anche del dovere: il bene, quel che dev’essere, nella
sua massima universalità. Bene oggettivo, certamente,
ma che si può contrapporre alla forma della volontà kan¬
tiana con quello stesso diritto con cui 1’ idea dell’essere,
forma del conoscere, si può contrapporre, per questo
rispetto, alla categoria kantiana: ossia quando non si sia
bene inteso il valore della dottrina di Kant. Che se s’in¬
tende esattamente il significato della forma morale kan¬
tiana, e quindi dell’autonomia da lui richiesta in morale,
la morale rosminiana non si può non considerare,
anch’essa, una morale formale e autonoma.
xi. — Il formalismo di Kant e il carattere dialettico della
concezione rosminiana del volere morale.
Ma la morale rosminiana s’avvantaggia su quella di
Kant per la concezione dialettica della volontà che il
filosofo italiano introduce nel formalismo etico. Giacché
il formalismo kantiano può spiegare il bene; ma non, può
spiegare il male; e quindi può spiegare lo stesso bene sol¬
tanto come un bene astratto, che non è bene vero, e non
si può infatti determinare senza ricorrere a un principio
estraneo. La forma, come definizione del carattere neces¬
sario e universale del puro volere, mi potrà dire : « opera
in modo che la tua massima possa servire come legge
universale»: ma che cosa dovrò fare, essa non potrà
dirmelo. Essa è forma vuota: e tale Kant la vuole, per¬
chè egli non vede che la forma si possa riempire se non
mediante una materia proveniente da altra sorgente.
La volontà, insomma, come semplice buona volontà, non
vuole niente, perchè vuole unicamente se stessa (attuare
INTRODUZIONE
23
se stessa). Il bene che ella vorrà, sarà a lei offerto dal¬
l’esperienza di ciò che empiricamente è bene non per la
volontà, ma per quella che Kant dice « facoltà di desi¬
derare inferiore », ossia per l’appetito (per l’istinto della
felicità, direbbe Rosmini). Ma è chiaro che se il bene
dell’appetito potesse trasformarsi in bene della volontà,
cioè nella stessa volontà, la volontà dovrebbe già in sè
avere il principio di questa determinazione. E concepita
dualisticamente la volontà buona di fronte all’appetito,
la volontà come principio di bene non può produrre se
non bene, puro bene. Il quale, essendo tale, non è bene
concreto; giacché, come s’ è visto, il bene non si può
realizzare come atto di volontà se non come superamento
del male. Una volontà radicalmente buona è incapace
perciò di attuare il bene. Questo il grande difetto del
formalismo kantiano.
Il Rosmini, distinguendo tra oggetto e soggetto, ossia
tra il momento universale ed il momento particolare del
volere, come tra momenti dello stesso libero volere, in¬
troduce nel seno stesso della forma morale il principio
della vita e del movimento. L’universalità è presente
nello spirito umano come « scintilla del fuoco divino », e
conferisce ad esso il valore assoluto di fine. Ma non c’ è
soltanto l’idea dell’essere nello spirito umano. « Per que¬
sta idea nell’uomo si ammise una singolare contrarietà
di natura, per la quale ora egli ci si mostra manifesta¬
mente un essere limitato, ed ora ci s’ ingrandisce e ci
apparisce come infinito: egli è veramente un essere misto
di finito e d’infinito : questi due grandi elementi così
opposti, che legati e quasi mescolati insieme formano
l’uomo, spiegano quella perpetua, quella essenziale lotta,
che presenta in sè la natura umana a chi la contempla:
poiché nulla di più debole, nulla di più misero di lei,
dove la si contempli da parte del soggetto-uomo, e nulla
in pari tempo di più nobile e più eccelso, di più venerando
di lei, dove la si consideri da parte di quell’oggetto-essere
24 I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
nel quale essenzialmente l’uomo rimira e s’affissa » z . Il
soggetto umano pel Rosmini è distinguibile, ma non
divisibile, in soggetto intelligente e soggetto sensitivo.
« L’esistenza di un soggetto meramente intelligente », egli
dice nell’ Antropologia, «è 1’esistenza di un soggetto sen¬
z’azione, senza passione, senza movimento di sorta, as¬
sorto in un’ immobile contemplazione che lo tiene fuor di
sè, e dalla quale non può passare a trovar se stesso »*.
Un mondo perfettamente intelligibile o ideale, è in¬
concepibile : perchè sarebbe per un soggetto che non
potrebbe trovar se stesso, e quindi non sarebbe soggetto.
Mediante il senso il soggetto coglie la realtà; non come
puro senso, che non è cognizione, nè coscienza, ma pel
senso unito all’ intelletto come unità de’ due principii,
e unità che si riflette su se stessa, e, percependo la pro¬
pria identità, dice: Io, il cui atto primo — dice scolasti¬
camente il Rosmini — è senso e intuizione insieme: quella
sintesi a priori che aveva detto Kant, e che il Rosmini
dice piuttosto percezione intellettiva.
Di questa unità sintetica che è 1’ Io, il Rosmini tiene
conto, dal rispetto etico, assai più che il Kant non avesse
fatto, cominciando già dalla sua teoria del conoscere.
Giacché anche il conoscere ha il suo valore morale, se
vien concepito come vera e propria attività spirituale.
Kant non aveva badato a questo lato della questione
gnoseologica. Lo dimostra questo: che nella sua Critica
della ragion pura non c’ è posto, nè di fatto nè di diritto,
pel problema dell’errore, dove apparisce infatti il carat¬
tere morale della cognizione.
Una conoscenza tutta necessariamente vera avrebbe
lo stesso valore d’una condotta tutta egualmente buona:
cioè, nessun valore: poiché nella sua necessaria determi¬
nazione si dimostrerebbe vita naturale, non vita dello
1 Pag. 27.
2 Antrop. in servizio della scienza mor., ed. Batelli, p. 296.
INTRODUZIONE
25
spirito. TI quale si distingue dalla natura perchè pro¬
cesso libero. Come tale, è verità; ma non è verità imme¬
diata e necessaria, sì verità che trionfa dell’errore; e così,
come già s’ è visto, bene che ha ragione del male. Una
conoscenza senza errore non è conoscenza; è natura,
meccanismo. Al meccanismo manca il soggetto, 1’ Io, che
pone innanzi a sè il meccanismo, e pone sè, perciò, di
fronte al meccanismo, come meccanismo suo: che è ciò
che si dice libertà. E si distingue pertanto dal proprio
atto in guisa da considerarlo, e però renderlo, non neces¬
sario. Kant scopre un nuovo mirabile congegno del co¬
noscere: un congegno, in verità, dentro al quale non si
può vedere se non la libera attività dell’ Io; ma Kant lo
guarda dal di fuori, donde non può parere altro che un
congegno, e quindi infallibile e necessario di estrinseca
necessità.
Il Rosmini invece, già nel Nuovo Saggio, sente il biso¬
gno di distinguere tra cognizione diretta e riflessa. La
prima « immune da errore, perchè opera della natura » 1 :
« il fatto della natura intelligente, la quale non erra » 1 :
semplice apprensione immediata dell’oggetto: appren¬
sione sintetica dell’oggetto nel complesso de’ suoi elementi
indistinti, che la cognizione riflessa analizzerà e ricom¬
porrà in unova sintesi, per opera non dell’ intelletto, ma
della volontà. Venendo dalla cognizione diretta alla
riflessa, si passa dalla conoscenza all’affermazione del
conosciuto. La seconda operazione non accresce il cono¬
sciuto: essa è «una ricognizione di ciò che si è appreso;
nella stessa forma lasciandolo in cui si è appreso ».
E qui comincia la possibilità dell’errore, perchè non
c’ è errore se non dove l’uomo fa uso della propria volontà.
Di qui la teoria dell’assenso alla verità, la quale si pre¬
senta primieramente come un giudizio possibile: semplice
1 N. Saggio, n. 1276.
= N. 125.
2b I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
•oggetto d’intuizione, in cui ancora non si dispiega l’atti¬
vità del soggetto. «A quella guisa», dirà il Rosmini nella
Logica ', « che un uomo, introdotto in una stanza piena
di cose di gran valore, dove tuttavia ci avessero tra molte
rare gemme mescolati de’ vetri, e gli fosse dato facoltà
di prendersi quella parte de’ tesori che a lui meglio pa¬
resse, si farebbe prima a contemplare tante ricchezze
procurando di discernere le vere dalle false, e poi s’ap¬
proprierebbe quelle che gli sembrassero vere gioie: così
accade delle cognizioni e delle opinioni, che altro è l’atto
di intuirle semplicemente e altro l’atto di esaminarne il
valore, ossia di pesare le ragioni de’ giudizi possibili, ed
altro ancora è l’atto del prendersele e farle proprie e per¬
sonali, che è l’ assenso. — L'indole propria dell’atto di
vedere colla mente, consiste in questo, che con esso gli
oggetti si riguardano in sè, senza relazione col soggetto:
laonde non si può dire ancora che gli oggetti intuiti sieno
dell’ intuente. Ma quando il soggetto non solo intuisce,
ma fa altresì l’atto d’assentire, con quest’atto egli unisce
sè agli oggetti, che pur sono senza di lui, e vi si sottomette
come alla verità: accetta personalmente gli oggetti come
veri, e come tali anche amabili, e norma a cui confor¬
mare se stesso. In questo fatto, col quale l’ente intellet¬
tivo aderisce tutto agli oggetti, aumentando così il pro¬
prio essere soggettivo colla partecipazione dell’esser og¬
gettivo, giace un grande arcano ». L’arcano che il Ro¬
smini si riserva di svelare nella sua Teosofìa : di quell’unità
dell’essere ideale col reale che è l’essere morale: quel¬
l’essere morale che si vede già additato da lui nel passo
citato dei Principii della scienza morale come singolare
contrarietà di natura: quel misto di finito e d’infinito
che è l’uomo, e che gli fa scrivere nella Storia, che la
moralità non è un’ idea, nè qualche cosa che appartenga
all’ordine ideale: «Tanto l’ordine dell’essere reale, quanto
1 N. soi.
INTRODUZIONE
*■> *7
“ /
l’ordine dell’essere ideale è al tutto distinto dall’ordine
dell 'essere morale. La moralità non appartiene nè al mondo
della realtà, nè al mondo delle idealità, ma essa consiste
nel rapporto di questi due mondi.... Non conviene dunque
confondere nè l’ordine fìsico delle sussistenze, nè l’ordine
razionale delle idee, coll’ordine della moralità: questo è
quello che lega insieme i due primi ordini, che li perfe¬
ziona, che li compisce, che dà loro la forma di una assoluta
bontà » ». La vera concretezza, diremmo noi, del cono¬
scere non sta nel puro astratto conoscere, ma nella mora¬
lità del conoscere; e d’altra parte, la vera concretezza
della natura, o dell’ordine fisico delle sussistenze, come
dice il Rosmini, sta nella loro morale spiritualizzazione 1 2 3 .
L’astrattezza della cognizione anteriore all’assenso è
espressa dal Rosmini definendo cotesta cognizione (poiché,
per lui, come per Kant, ogni cognizione è un giudizio)
un giudìzio possibile 3 . E d'altra parte la concretezza del¬
l’atto spirituale dell’assenso, in cui interviene e s’impegna
la personalità del soggetto, è da lui dimostrata con la
sua teoria della facoltà dell’assenso, che egli bada bene ad
escludere che si possa intendere come una particolare
potenza dell’uomo. Potenze sono il senso, l’intelletto,
la volontà, per mezzo delle quali il soggetto compie certi
atti; laddove «l’atto dell’affermare ciò che intende, il
soggetto uomo lo fa per se stesso, perchè quell’atto non
è altro che un accomodare se stesso a ciò che intende,
non è intendere qualche cosa di nuovo ». E il Rosmini
formola una regola per conoscere quando gli atti sieno
compiuti immediatamente dal soggetto, e quando sieno
compiuti da lui per mezzo delle sue potenze : « Ogni qual¬
volta, nell’atto di cui si tratta, scorgesi un movimento di
tutto il soggetto (del me), e quel movimento è così sem-
1 Cfr. Psicol., n. 951 e Teosofia, n. 739.
2 Cfr. parte I, cap. III. § 5.
3 Logica, n. 133 e 134.
28 I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
plice che non vi si può distinguere nessuna attività par¬
ticolare contrapposta ad un’altra, quell’atto è immedia¬
tamente del soggetto; ma quando nell’atto si scorge un
movimento parziale del soggetto, sicché non è tutto e
indiviso il soggetto che si move o si modifica, quell’atto
è del soggetto mediante una sua potenza » J .
12 . — Elementi intellettualistici
persistenti nella dottrina rosminiana.
Qui dunque, in questo atto indivisibile del soggetto,
è la realtà vera dello spirito, che può avere delle potenze,
ma non può essere nessuna delle sue potenze. E però, se
all’analisi esso ci si dimostra da una parte senso, dall’al¬
tra intelletto, e quindi percezione intellettiva; da una
parte istinto, e dall’altra volontà; da una parte intelli¬
genza, e dall’altra volere; esso realmente è dove è tutto,
e agisce immediatamente portando la propria realtà nel
seno dell’ idea, che sfumerebbe altrimenti in un’astratta
possibilità, e illuminando dell’ idea, o idealizzando, la
propria natura, che s’impietrerebbe altrimenti in una
fisica sussistenza.
Il soggetto, dunque, è soggetto del conoscere in quanto è
concreta potenza morale: conoscere insieme e volere:
unità, che esso può realizzare in quanto non è realtà nè
idealità, ma l’una cosa e l’altra, e perciò realtà morale,
che non è nè puro essere nè puro dover essere; nè puro
finito, nè puro infinito.
In questa concezione intrinsecamente morale del cono¬
scere, in questa critica dell’astratto conoscere come
mera attività teoretica che presupponga l’oggetto, il
Rosmini, prima ancora di proporsi il problema intorno
al principio della morale, lo aveva risolto. Il suo ricono¬
scimento pratico dell’essere, che a un giudice superfi-
1 Logica, n. i ^o.
INTRODUZIONE
29
ciale può parere un principio intellettualistico della mo¬
rale, è invece fondato su una concezione antintellettua-
listica della conoscenza: concezione, nella quale il Ro¬
smini del Nuovo Saggio si ricollega a Cartesio, e più a
Malebranche per la teoria che l’uno e l’altro professarono
intorno all’origine dell’errore: ma che risale assai più in
là del movimento cartesiano, alla corrente agostiniana
della psicologia scolastica prevalsa principalmente per
opera di Duns Scoto e di Occam: rappresentando il più
schietto spirito cristiano di contro al razionalismo intel¬
lettualistico greco.
E di queste sue remote origini la dottrina rosminiana,
nella teoria della conoscenza come nella etica, serba
visibile traccia nella astrattezza e meccanicità delle di¬
stinzioni, sottili insieme e solidissime, onde il Ro smini
disgrega l’indivisibile unità dello spirito, che poi gli
tocca di ricostruire faticosamente; e non gli può riuscire.
Il suo errore metodico può esser definito, in generale,
così: che egli anticipa all’analisi quello che è prodotto
dell’analisi, e si lascia sfuggire perciò l’unità viva, origi¬
naria, su cui l’analisi lavora.
Così, distinguendo analiticamente l’oggetto e il soggetto,
può ritenere anteriori i due termini all’atto unico dal cui
seno sono stati astratti. Così, distinguendo l’astratto
aspetto teoretico dal momento pratico dello stesso cono¬
scere, fa precedere 1’ intelletto alla volontà, e tutte due
all’assenso, e il riconoscimento speculativo al riconosci¬
mento pratico. Così era avvenuto a Cartesio, che, con la
sua opposizione, non ideale, ma reale, tra intelletto e
volontà, andò incontro a difficoltà insormontabili ». E
così nella filosofia rosminiana non è possibile rendersi
conto del modo in cui si concilia la teoria della percezione
intellettiva con quella dell’assenso, o quella del riconosci-
1 Cfr. la mia Teoria generale dello spirito come atto puro, 4 a ed.
Bari, Laterza, 1924 p. 234-s.
3 °
1 FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
mento speculativo con quella del riconoscimento pratico r
una volta che se n’ è fatto due cose distinte, una delle
quali può stare senza l’altra : il riconoscimento speculativo
senza il pratico. Questo dovrebbe aggiungere qualche
cosa al primo, arrecare un nuovo elemento; e intanto il
primo, se è un momento reale dello spirito, include quel¬
l’elemento stesso, che sarebbe la caratteristica del secondo;
e se non l’include, cessa, secondo la stessa dottrina ro-
sminiana, di essere un che di attuale per diventare un
mero giudizio possibile.
« Se io », dice il Rosmini « giudicando un oggetto, il
considero puramente in se stesso, nella sua propria entità
e dignità, senza involgervi alcuna relazione con me, io
non ho fatto di lui che un giudizio speculativo ; 1’ ho
considerato nell’ordine degli enti, e gli ho assegnato il
suo luogo fra essi, e non più. Resta ora che io determini
me stesso relativamente a questo oggetto ». Qui, eviden¬
temente, si contraddice al passo già riferito dalla Logica,
dove in ogni reale giudizio, in cui interviene il soggetto
col suo assenso, è posta come essenziale la relazione del
soggetto con l’oggetto. L’analisi sarebbe legittima se
questo oggetto, considerato in se stesso, si concepisse come
un elemento astratto dell’atto conoscitivo, in cui il sog¬
getto si presenta nell’affermazione che fa dell’oggetto, e
non può quindi stimare teoricamente senza stimare pra¬
ticamente.
Si può dire che la ferita aperta nello spirito col pre¬
supposto della prima opposizione dell’ idea (essere ideale
intuito dall’ intelletto) e della realtà (soggetto come senso
di sè) non si rimargina più. Una prima unità sintetica è
posta dal Rosmini come percezione intellettiva che uni¬
fica sensazione ed essere ideale, ossia idea e realtà (ed
ecco la moralità): ma il reale, idealizzato dall’essere, di¬
venta un giudizio possibile, tutta una pura idealità; ed
i V. Il i>rinc. d. mor., p. 8.
INTRODUZIONE
3 r
ecco risorgere il bisogno di far calare questa idealità nel
reale, impiantandola nel vivo soggetto che vuole; ed ecco
l’assenso, o riconoscimento speculativo; ed ecco di nuovo
la moralità. Ma questa stessa ricognizione tocca e non
tocca il soggetto, poiché essa mi pone innanzi un oggetto;
e resta che io mi determini relativamente a questo oggetto,,
come s’ è visto. E «io posso determinarmi in due modi:
cioè, posso aderire a quell’oggetto conformemente al
prezzo speculativo di lui conosciuto; ovvero posso divi¬
dermi da esso, e far per così dire le mie cose a parte,
determinare la mie affezioni e operazioni secondo altre
vedute, senza che l’entità e bontà di quell’oggetto ne’
miei divisamenti influisca » ». Ed ecco ancora una volta
la moralità.
Ma, se fosse vero che la stima speculativa ci può essere
senza la pratica, come potrebbe mai nascere la seconda ?
Pura stima speculativa significa oggetto senza soggetto,
ovvero oggetto in cui lo stesso soggetto ci sia oggettivato,
idealizzato. E se questa è la natura dell’oggetto, o di
essere soltanto oggetto, o di risolvere in sé il soggetto,
come potrà mai questo entrare con esso in rapporto, a
entrare in un rapporto che conservi l’uno e l’altro termine
del rapporto stesso ? E chiaro che, ove il soggetto potesse
una volta trovarsi innanzi a un oggetto che fosse tutto,
senza che egli fosse nulla, il problema stesso del rapporto
tra lui e l’oggetto non sorgerebbe mai. Se c’ è un mondo
come oggetto dello spirito, non c’ è lo spirito. Dalla po¬
sizione intellettualistica, non c’ è passaggio a una con¬
cezione dello spirito, e però della morale.
13 . — Carattere della morale rosminiana.
Senza chiudere gli occhi a questo difetto dualistico che
travaglia con le difficoltà da esso provenienti la gnoseo-
1 A. Rositi nt, Il princ. della morale, ed. Gentile, pag. 8.
32
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
logia, la logica e l’etica rosminiana, bisogna tuttavia
convenire che il Rosmini, se non riesce ad appagare, ha
il merito di affermare un’esigenza profonda, che è l’anima
di tutta la sua speculazione, dal Nuovo Saggio fino alla
Teosofia : il concetto della moralità, ossia della libertà
essenziale dello spirito: che non è quello che è, ma quello
che esso si fa, perchè autore di se medesimo.
A questo concetto bisogna mirare per intendere lo spi¬
rito della sua morale. Di cui sfuggirà tutto il significato,
altamente cristiano, a chi si arresti a certe deduzioni e
supposizioni analitiche, e voglia di qui ricavare la defini¬
zione delle sue tendenze. Chi guardi, per esempio, a quel
pensiero dell’uomo ancora una volta al bivio, tra l’ordine
oggettivo e il soggettivo, tra l’essere e il piacere, tra
l’idea e il senso, tra il bene insomma e il male, e a quella
deduzione : « se ascolta il cieco impulso ad essere istanta¬
neamente febee, egli, nel fare questa stima mentirà, dirà
a se stesso che gli oggetti non sono quel bene che sono,
che non sono per lui ed ora ciò che pur concepisce essere
in se stessi; in somma disconoscerà quello che conosce,
negherà di vedere quello che vede, sentirà nel fondo della
sua intelligenza la verità, e dirà a se stesso che la cosa è
altramente, rinnegandola » ; chi voglia dall’idea di questa si¬
tuazione desumere il carattere della morale rosminiana, non
può non intenderla come il più crudo intellettualismo.
Qui il bene coincide con la verità; e come la verità è un
presupposto dell’ intelletto, questo bene c’ è già prima
che si voglia, e si può volere, perchè già è. Qui, dunque,
non v’ è senso di moralità, di produttività dello spirito.
Quello che può fare di suo lo spirito, poiché il bene c’ è
già quando egli opera, non è che il male. Strano ! Se
moralità è libertà, potenza creatrice dello spirito, e bene
è quello che lo spirito crea creando se stesso, il bene, in
questa situazione, non può essere altro • che male ! Ed
ecco, infatti, il Rosmini conchiudere che appunto quella
che si dice forza pratica, l’umana hbertà, è « questa ter-
INTRODUZIONE
3^
ribile forza di dir falso al vero, di dir male al bene, di
cassare agli occhi propri quella entità che gli sta dinanzi
e che non può distruggere, di crearsi un idolo mostruoso
e vano » *.
Ma non è qui il vero pensiero del Rosmini; e bisogna
considerare che quel bene che qui apparisce come un
antecedente della volontà, non è se non legge della mo¬
ralità, non la moralità stessa, il vero bene: e che diventa
vero bene solo in quanto è voluto in quel rapporto in cui
s’è visto thè pél Rosmini la moralità consiste come
unità di ideale e reale. « La legge è sempre un essere ideale,
la volontà è un essere reale » 1 2 3 ; e « l’elemento morale con¬
siste sempre in una determinazione della volontà » 3 . Qui
piuttosto è il giusto significato del riconoscimento pratico
dell’essere, che è il bene sì, ma in quanto praticamente
riconosciuto, e cioè operato.
E operato esso può essere appunto perchè può anche
non essere operato: perchè oltre la legge ideale, la vo¬
lontà, come istinto, ha anche un’altra legge, che è la sua
legge reale, il suo essere immediato: quella legge, che
non è una legge ideale e da attuare, ma reale perchè già
attuata. Lo spirito infatti immediatamente è male: cioè
non è spirito; spirito si fa, e perciò è immediatamente,
idealizzandosi, e, in quanto s’idealizza, facendo il bene.
Per questa concezione dialettica del volere il Rosmini
può abbozzare nella sua Teodicea una giustificazione im¬
manentistica del male. Ciò che non fu possibile a Kant.
1 Pag. 13; cfr. Filos. del dir., I, 77, 8.
2 Pag. 27.
3 Pag. 30.
Giuntile, I /ondementi della filosofia del diritto.
3
I.
LA NECESSITÀ E L’ASSUNTO
DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
I. — Filosofia del diritto,
Sociologia, teoria generale del diritto.
E stata discussa recentemente la ragion d’essere o
posizione logica di una filosofia del diritto; e già alcuni
decenni or sono, essa era stata senz’altro negata per
sostituirvi ora la sociologia (obscurum per obscurius), ora
la così detta teoria generale del diritto (allgemeine Rechts-
lehre).
Contro la filosofia del diritto stava il concetto stesso
del diritto, poiché, per influsso speciale della scuola sto¬
rica del diritto, e per influsso generale del positivismo
naturalistico prevalso nella seconda metà del secolo
scorso, si vedeva nel diritto il fatto, il fenomeno storico e
sociale. Del quale è ovvio che non è possibile trattazione
filosofica. Concepire il diritto come fatto o fenomeno è
già negare la filosofia del diritto.
2 . — Il diritto come idea.
La filosofia del diritto, infatti, che entrò in crisi per
effetto della scuola storica, era stata dottrina del di¬
ritto naturale anche prima che sorgesse il vero e prò
prio giusnaturalismo. Era stata cioè speculazione a priori
e puramente razionale del diritto, considerato perciò
t-A NECESSITA e L'ASSUNTO DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO 35
come idea. Nè, opponendosi all’astrattezza del giusnatu¬
ralismo anteriore (e posteriore), era stato meno razio¬
nalista nella sua Filosofìa del diritto Hegel, che in tutte
le parti della sua filosofia non perseguiva altro che le
forme necessarie dell’ Idea nel suo dialettico svolgimento.
3- — Immanenza del metodo nel concetto del diritto.
Il metodo, insomma, di conoscenza e d’ investigazione
d’ogni oggetto che si prenda a studiare, non è qualche
cosa di sopraggiunto all’oggetto stesso, e del quale sia
dato disputare dopo che sia stato posto l’oggetto: quasi
che, nel caso presente, ci fosse già il diritto, e si dovesse
ancora cercare qual forma di trattazione logica sia con¬
sentita dalla sua natura.
Il diritto innanzi a noi c’ è in quanto si concepisce e si
definisce; e, per esprimerci più semplicemente, noi pos¬
siamo dire che ci sia il diritto quando sappiamo almeno
presso a poco, che cosa si intenda per diritto. Ed allora
nel nostro concetto è immanente un punto di vista, ossia
appunto un metodo, dicasi empirico o filosofico, onde
viene non soltanto posta ma anche risoluta la questione
che si credeva fosse tuttavia da porre. Di guisa che le
critiche della filosofia del diritto, le quali pigliano le mosse
dalla rappresentazione empirica del fenomeno giuridico,
sono bensì lucide e ineccepibili, ma sono pure alquanto
ingenue e prive di forza scientificamente probativa.
4 . — Il diritto come fenomeno o fatto.
e conseguenza di questa posizione.
La questione da risolvere è, se sia possibile concepire
il diritto come puro fatto o fenomeno: e riguarda perciò
non un metodo che presupponga il diritto, ma la stessa
posizione del diritto. E bisogna convenire che non sia
3 6
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
mancato il coraggio per trarre le conseguenze che deri¬
vano dalla posizione del diritto come fatto. Giacché chi
dice fatto », dice natura, determinismo, meccanismo,
necessità bruta, priva d’ogni lume di finalità o raziona¬
lità. Ed era quindi nella logica di tale posizione, che il
così detto fenomeno sociale si giungesse a considerarlo
come un fenomeno naturale', e che la sfera del diritto
(per un fatale ritorno al naturalismo stoico dei giuristi
romani) si estendesse dagli uomini agli animali, non per¬
chè questi, come già nel medio evo, fossero innalzati
quasi a persone, soggetti di diritto, in quanto responsa¬
bili del loro essere ed operare, ma perchè gli uomini do¬
vevano scendere a quel livello psichico, dove non pare
che splenda raggio di libero discernimento, e il fatto
non sia che la ripetizione immancabile di fatti consimili
e l’avverarsi d’una legge che non può mutare.
Conseguenze siffatte hanno creato gravi difficoltà alla
conservazione del carattere specifico e innegabile del di¬
ritto, come fatto umano, che è legato a un valore, e di
cui l'uomo prima o poi, in una o altra sede, ha coscienza
fermissima di essere autore. Innanzi a queste difficoltà
perciò si sono fermati esitanti i più discreti teorici, che han
voluto mantenere al diritto la sua propria indole di realtà
storica, prodotta cioè dalla consapevole e progressiva
attività umana, ancorché intelligibile soltanto alla luce
delle condizioni determinanti, e non già di un’ idea che
essa tenda ad attuare.
Tuttavia conseguenze siffatte non sono gli argomenti
più adatti a dimostrare in maniera perentoria il difetto
della posizione di cui si tratta. Convien piuttosto ri¬
farsi dal concetto stesso di fenomeno e dal concetto
di fatto ; due concetti, che possono coincidere, e possono
divergere.
1 Cfr. la mia Teoria generale dello spìrito come atto puro, 4* ed.
Bari, Laterza, 1924, pp. 154 sgg.
LA NECESSITÀ E L'ASSUNTO DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO 37
5. — Distinzione tra fenomeno e categoria giuridica.
Chi dice « fenomeno », dice soggetto a cui il fenomeno
appare: a cui appare, come la filosofia moderna ha dimo¬
strato, in virtù dell’attività propria del soggetto stesso,
che misura, anzi forma il reale, che egli si rappresenta
alla stregua delle proprie categorie. Il fenomeno, insomma,
non è un essere per sè stante, intuito dalla mente a cui
si rappresenta; bensì un modo della mente nella co¬
scienza che essa ha di sè; e insomma un modo di essere
(e perciò di rivelarsi a se medesima) della mente.
Un fenomeno naturale è un modo di rappresentarsi la
natura in un certo tempo e in un certo spazio, che sono
forme subbiettive della stessa attività rappresentativa;
la quale, per di più, non toglie a materia del proprio rap¬
presentare nulla che si possa considerare anteriore ed
estraneo alla rappresentazione, ma appunto ciò che ne
è il contenuto. In altri termini, non si rappresenta se
non se medesima.
Un fenomeno storico presuppone nella mente dello
storiografo tutte quelle categorie appercipienti ond’esso è
caratterizzato, dalle più generiche alle più determinate, e
non designa, nel suo nucleo interiore, se non un momento
della vita di quella mente, così come essa può immagi¬
narsi 1 condizionata nel tutto. Un fenomeno storico, che,
come giuridico si distingua da altri fenomeni storici
(morali, religiosi, scientifici, ecc.) presuppone (oltre il
resto) la categoria del diritto, finché almeno non si ab¬
bandoni la distinzione, come infondata e illusoria, fatta
tra quello e altri fenomeni: distinzione che l’empirista
non ha certamente nessuna voglia di abbandonare.
1 Dico « immaginarsi », perchè, in realtà, essa non è altro dal
tutto (da cui prssa essere condizionata), ma è il tutto stesso nella
consapevolezza di sè.
38
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
6 . — La categoria come fenomeno, e la categoria come tale.
Tale categoria è suscettibile di una duplice considera¬
zione; e bisogna distinguere accuratamente l’uno e l’altro
modo di considerarla per poter avvertire 1’ insufficienza,
per dir così, organica e costituzionale dell’empirismo giu¬
ridico, come di ogni empirismo. Cotesta categoria, cioè,
può diventare oggetto di semplice constatazione di fatto
e di descrizione empirica: e, come uno dei termini del¬
l’esperienza, schierarsi, alla sua volta, tra i fenomeni,
di cui è categoria o ideal forma: la quale ha anch’essa
la sua storia, che è poi la storia a parte subiectì dei feno¬
meni corrispondenti. In questo modo è evidente che non
si supera punto, anzi si accresce e rinsalda l'empirismo
del fenomeno. Ma, oltre ad essere fenomeno, la categoria,
per essere quel tale fenomeno che ftmziona da categoria
dei fenomeni dipendenti, bisogna pure che sia categoria.
e venga considerata come tale. E questa è la scoperta
della moderna gnoseologia.
La distinzione, verbalmente agevole e ovvia quando si
formola, riesce invece sottile ed astrusa quando si deter¬
mini con tutto il rigore logico, sbarrando definitivamente
il passo all'empirismo e chiudendolo ne’ suoi limiti in¬
valicabili, oltre i quali è forza che ceda il posto a una
concezione superiore. Ma c’ è un modo netto e preciso di
determinare tale distinzione; ed è quello, su cui insiste
1 ’ idealismo attuale, ossia 1’ idealismo che non conosce
idea o pensiero, che non sia l’atto dello spirito; l'atto,
beninteso, non già ipostatizzato e speculato, ma realiz¬
zato, e, per così dire, atto in atto. La categoria che ridi¬
scende a fenomeno, non è categoria del pensiero per cui
la categoria ridiscende a fenomeno: nel suo fenomeniz-
zarsi non si distrugge come categoria, anzi si stacca quasi
da sè categoria, lasciando quindi dietro a sè la vera e
propria categoria.
LA NECESSITÀ E L'ASSUNTO DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO 3 <J
7. — Immanenza della categoria giuridica nei fenomeni
che sono oggetto della storia del diritto.
Esempio. Lo storico del diritto tratterà come feno¬
meno storico la convinzione giuridica che presso i Ro¬
mani faceva della schiavitù una parte del ius gentium :
convinzione giuridica, che gli apparisce necessariamente
transeunte, poiché essa infatti, per l’azione della filosofia
greca e del cristianesimo, a poco a poco, venne meno,
e passò; laddove non poteva essere guardata con lo stesso
occhio dal giureconsulto, e, in generale, dal cittadino
romano; il quale non avrebbe potuto attribuire alcun
valore a un diritto, che non avesse avuto in sé una forza
intrinseca ed assoluta, in quel punto che serviva di base
a una certa actio, e valeva insomma come diritto. Ma lo
storico del diritto, per quanto si stacchi da quella vetusta
coscienza giuridica e le si contrapponga e sovrapponga,
non può, se riesce davvero a costruire la storia di un si¬
mile istituto giuridico già tramontato, non intuirlo, e ri¬
collocarlo al suo posto nello svolgimento di quella coscienza
giuridica universale, che sbocca, per così dire, nella sua;
non può fare che quello stesso istituto non rientri nella
storia del diritto medesimo, che è diritto per lui, e non
abbia un assoluto valore attuale, e non sia pertanto una
categoria, e non più un fenomeno.
In conclusione, si può dire che la categoria stessa
è fenomeno quando non è categoria in atto; ma è
categoria, e non più fenomeno, quando funge da ca¬
tegoria; ed è la nostra stessa categoria. Parimenti, quan¬
do si pone la causa tra le categorie del pensiero
empirico, altro è pensare un determinato concetto della
causa, che non potrà essere esso stesso niente più che
un concetto empirico (sintesi, quindi, di categoria e di
esperienza) ; e altro è pensare secondo il nesso causale
4 o
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
due fenomeni successivi mediante un giudizio, del quale
la causa funziona da categoria o forma immanente del
pensiero attuale.
8 - — Differenza tra la teoria generale del diritto
[e ogni fenomenologia giuridica)
e la filosofia del diritto.
Convien dunque distinguere tra categoria che funge
da categoria, e categoria che è, essa stessa, contenuto di
un certo atto conoscitivo, e però di un’altra categoria;
e badare che quando si fa di una categoria la condizione
di una forma dell’esperienza, si vuol sempre parlare della
categoria nel primo di questi significati. La quale per¬
tanto non è possibile non contrapporre recisamente al¬
l’ordine dei fenomeni onde consta quella tal forma di
esperienza. E quindi è da conchiudere, non esser possibile
parlare di fenomenologia giuridica, come sociologi, stori¬
cisti ed empiristi d’ogni sorta fanno, senza postulare una
ricerca che trascende affatto la cerchia dei problemi che
essi hanno modo di proporsi: la ricerca della categoria
giuridica, intesa non come, essa stessa, un concetto em¬
pirico, cui sia dato di pervenire con l’analisi dei fenomeni
giuridici, l’astrazione, la generalizzazione e la formula¬
zione di classi e leggi generiche, a quel modo che special-
mente la teoria generale del diritto si propone di fare;
ma nel senso, che si è chiarito, di categoria assoluta ; vale
a dire di concetto universale, o eterno momento della
vita dello spirito.
9. — La contestabilità di una categoria giuridica.
E stata bensì sollevata l’obbiezione che ai fenomeni
giuridici non corrisponda nessuna categoria in questo
senso di concetto universale, perchè il concetto di feno¬
meno giuridico non è giustificato nè giustificabile mediante
LA NECESSITÀ E L’ASSUNTO DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO 41
una distinzione filosofica rigorosa, in guisa che si possa
con un taglio netto separare ciò che è giuridico da ciò
che giuridico non è a quel modo che si distingue ciò che
rientra nel dominio del giudizio etico da ciò che vi è
estraneo.
Ma questa obbiezione, in questo luogo, è priva d’inte¬
resse per noi, che vogliamo dedurre la necessità della
filosofia del diritto non contro i filosofi che ne hanno
negato o messo in forse la possibilità, ma verso i giuristi,
che ammettono un diritto e non scorgono il problema
specifico della filosofia del diritto.
A quei filosofi poi la risposta verrà da sè, come corol¬
lario della soluzione che noi daremo alla ricerca suddetta
della categoria giuridica. Perchè è evidente che l’affer-
mazione o negazione d’una vera e propria categoria del
diritto non può derivare dalla discussione dei caratteri
empirici del fenomeno, quale si presenta al giurista (dove
non è sperabile che si possa mai scoprire ciò che razional¬
mente ne è escluso, per le ragioni già dette) ; bensì solo
dall’ indagine speculativa intorno al concetto stesso dello
spirito, di cui il diritto, se c’ è, è categoria.
io. — Ripugnanza intrinseca tra i due concetti
di diritto e di fatto.
E il concetto stesso, a cui ci riconduce l’analisi del¬
l’altra proposizione, che il « diritto è un fatto » (o « si¬
stema di fatti »). Abbiamo già accennato all’ inintelli¬
gibilità dei caratteri spirituali, onde lo stesso fatto giuri¬
dico apparisce universalmente investito, appena il pen¬
siero si fermi a considerarlo come puro fatto. L’inintel¬
ligibilità culmina nella impossibilità di concepire come
libero un fatto, e di concepire come non libera una manife¬
stazione dello spirito. 11 fatto è realtà realizzata; la quale
è quella che è, nè può esser altra. Nè vale trasferirsi col
pensiero al momento, in cui non era realizzata; giacché
4*
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
tal momento, assolutamente separato o diverso (che è
10 stesso) da quello in cui tale realtà è per realizzarsi,
non è concepibile se non in funzione di un’altra realtà
di fatto, condizione di quella realtà che è tuttavia da rea¬
lizzare: in guisa che quest’altra non potrà essere diversa
da quella che sarà.
Il fatto è nel tempo; e nel tempo non c’ è se non quel
che c’ è, ossia quel che vi poniamo noi, che costruiamo
11 tempo stesso della nostra esperienza 1 . Perciò il fatto
ci si presenta costantemente coi caratteri intrinseci di
necessità e d’immutabilità, attributi caratteristici della
realtà concepita come opposta allo spirito, e che si dice
<<natura»; cui non è possibile attribuire mutazione, che non
sia conforme a una legge. La quale, a sua volta, non è
legge che debba realizzarsi, ma legge che effettivamente
si realizza, cioè essa stessa, un fatto : come dire, non legge
da instaurare, quasi fatto da compiere, ma legge già
esistente, fatto compiuto, e perciò non più mutabile.
Sicché tutta la natura non può esser diversa da quella
che è, determinata con necessità ineluttabile in tutte le
sue forme e in tutti i suoi particolari: prevedibile (si dice)
nel suo operare, perchè tutto il suo futuro è come lo svi¬
luppo di una formula già determinata in tutti i suoi ele¬
menti; ossia perchè, in realtà, il suo futuro è il suo stesso
passato, oggetto dell'esperienza.
ir. — Il pensiero come otto.
Contro questa natura, e in generale contro la realtà
che è un fatto, sta lo spirito (l’uomo appunto, che si
contrappone ad essa e la giudica, osservandola, e quindi
prevedendone il fatale andare). E lo spirito, per questo
solo che sta di fronte alla natura e alla universalità dei
1 Cfr. Teoria generale dello spirito, cap. IX.
LA NECESSITÀ E L’ASSUNTO DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO 43
fatti, è libero; che è come dire che non è un fatto. Giacché
stare di fronte a una realtà è pensarla; e pensare è un
atto, non un fatto. La differenza sta in ciò, che il fatto
è, come s' c detto, qualche cosa di già compiuto; rispetto
all’atto di pensiero per cui è un fatto, e quindi rispetto
a un soggetto che si attua in un pensiero: laddove l’atto
è quello che si realizza appunto per opera del soggetto
che l’afferma. Sicché una volta il soggetto pare sia spet¬
tatore del risultato dell’opera altrui; un’altra volta è
spettatore della sua propria opera, e attore in quanto
spettatore; nel qual caso la realtà, reale pel soggetto,
non è qualche cosa che s’ imponga a questo con la sua
legge, anzi è la vita stessa del soggetto, libera.
12. — Il concetto della libertà.
Si provi chiunque a pensare un atto che non sia l’atto
stesso di lui che pensa e che tale atto pone (come fa sempre
chi parla di atti altrui o di atti già compiuti in passato,
da lui stesso o da altri) ; e troverà agevolmente sempre
che il distaccarsi del soggetto dell’atto dal soggetto che
pensa l’atto, fa precipitare il contenuto dell’atto in un
passato, in cui non c’ è posto se non per la realtà già
consumata, e il cui processo di realizzazione è esaurito.
Esaurito e passato, ancorché si prolunghi in un futuro,
che non può essere se non l’esplicamento di germi
preesistenti.
La libertà è questa unità inscindibile del reale e del sog¬
getto ; quella identità, cioè, di oggetto e soggetto che è
1 ’ Io, l’autocoscienza. La quale è pertanto toto coelo di¬
versa da ogni realtà che si definisca come fatto. E però
il diritto non può essere considerato a questa stregua
senza cader subito fuori dell'ambito della vita dello
spirito.
44
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
13 - — Fatti naturali, fatti umani e la storia eterna di Vico.
Ma c’ è fatto e fatto. E chi non vede nella storia
nient’altro che fatti, non perciò intende livellare storia e
natura, e assimilare i fatti dell’uomo a quelli della natura.
1 quali sono, per definizione, impenetrabili: giacché fatti
della natura son detti, in quanto appunto vengono con¬
trapposti ai prodotti di quell’attività spirituale, che sola è
razionale, e quindi razionalmente intelligibile. E i fatti
umani invece sono opera dello spirito, che pertanto non
può non ritrovarvisi. E vi si ritrova, in verità, come per
primo notò il Vico, nel suo proprio mondo: un mondo,
si badi, che, in quanto vien compenetrato dall'attività
della mente, e realizza perciò quell’unità del reale e del
soggetto, che abbiamo detta propria dell’atto, ossia della
libertà, non è più storia di fatti passati, sepolcro di vita
spenta, ma storia eterna (come il Vico disse), cioè ap¬
punto attuale nel pensiero che la pensa. E ognuno che
afferma, per quanto oscuramente, la differenza specifica
del fatto umano, contrapponendo la storia col suo eterno
variare alla natura nel suo eterno ripetersi (anche Vico
naturalizza la storia coi corsi e ricorsi, ultima eco dei
cicli cosmici dei vecchi filosofi presocratici e di Platone),
vede o intravede questa peculiarità del fatto umano,
che non è propriamente fatto, ma atto; non è più risul¬
tato fisso e impietrato di un processo, ma il processo me¬
desimo, in cui il risultato d’ogni ritmo è principio d’un
ritmo nuovo.
14• — Equazione del fatto umano col fare.
Ecco qua un libro, la cui esistenza, quale viene definita
con ogni circostanziata particolarità delle sue caratteri¬
stiche storiche, è evidentemente un fatto. Ma è un fatto,
che è un libro; e un libro vuol dire un ordine di pensieri;
LA NECESSITÀ E L’ASSUNTO DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO 45
che noi non possiamo metterci innanzi così come si può
(o pare si possa) additare, immediatamente, il corpo
materiale che si denomina «libro»; si può conoscere
soltanto se si riproduce in noi, in modo che il libro e il
lavoro della mente nostra sien tutt’uno: quell’unità di
reale e di soggetto, che è l’atto, o Io. Conoscere, adunque
un fatto spirituale, e quindi affermarlo come tale, è scio¬
glierne la massiccia materialità immediata nel fluente
processo spirituale di cui è risultato, o, propriamente, in
cui consiste: risolvere il fatto nel fare, l’oggetto della nostra
esperienza nella nostra esperienza.
15. — Il principio del diritto come fatto, e la categoria.
Tutto ciò torna a quel medesimo che ci venne fatto di
osservare circa il concetto del diritto come fenomeno. A
quel modo che la vera intelligenza del fenomeno giuridico
ha immanente in sè l’intelligenza del diritto quale catego¬
ria, così la comprensione del diritto come fatto implica la
comprensione di quell’attività giuridica, che non è più
un fatto, bensì il principio produttivo del fatto. Il quale
principio produttivo non è altro che la categoria, poiché
nell’atto spirituale l’essere è lo stesso pensare, e la realtà
non è altro che il soggetto; sicché intendere è produrre,
e la categoria per cui s’ intende, non può essere altro
che il principio produttivo.
16. — La filosofia inconscia degli empiristi del diritto.
Anche la considerazione storica, pertanto, come la
considerazione fenomenologica del diritto, postulano e
implicano una filosofia del diritto; e non averne chiara
coscienza, credere di sottrarsi a questa filosofìa e negarla
non significa già infatti reprimerla e aver ragione della
tendenza speculativa della ragione nel campo del diritto;
ma può significare soltanto fare della cattiva filosofia
46 I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
ed essere, come direbbe il Manzoni *, servitori senza
livrea. Giacché, qui come altrove, sottrarsi ai problemi
filosofici non è possibile; possibile bensì è proporseli scor¬
rettamente e risolverli quindi in maniera spropositata.
17. — Il compito della filosofia del diritto.
Alla filosofia del diritto spetta di ricercare a quale
momento della vita dello spirito si debba il fenomeno giu¬
ridico: quale sia il principio che genera i fatti giuridici
e in virtù del quale questi fatti si distinguono tra i
fatti umani. Il suo compito si potrebbe perciò definire
gnoseologico ; ma di una gnoseologia, che, come si vedrà
meglio più innanzi, non è una propedeutica o un sem¬
plice organo o canone della filosofia; bensì la stessa filo¬
sofia nel suo più sostanziale nucleo metafisico, come co¬
scienza critica della legge profonda della realtà; poiché
questa legge è raggiungibile dal pensiero nella realtà che
esso stesso realizza pensando.
1 Dell' invenzione, in Opere varie, Milano, Redaelli, 1845, p. 584
TI.
LA REALTÀ COME PENSIERO
i. — La realtà realizzata dal pensiero.
Che il pensiero pensando realizzi una realtà (cioè se
stesso) è ovvio, poiché il pensiero deve pur essere qualche
cosa dal momento che tanto se ne parla, e tanto pur
certamente esso fa nel mondo. E negare si può, soltanto
attribuendo alla realtà, in forza d’un presupposto ingiu¬
stificabile, un significato, da cui han tratto origine per
millennii difficoltà insormontabili alla riflessione specu¬
lativa: il significato cioè, di puro oggetto del pensiero,
anteriore alla conoscenza che questo eventualmente ne
acquisti, e però indipendente dal rapporto in cui la cono¬
scenza consiste. È il presupposto dell’antico e moderno
dommatismo, essenzialmente naturalistico: poiché ripone
la realtà nell’opposto del pensiero (dello spirito per cui
è realtà) ; e questo opposto è, come fu dichiarato nel
capitolo precedente, natura.
Presupposto ingiustificabile, come a grado a grado s’è
palesato nella storia della filosofia moderna. In primo
luogo, nel concetto della realtà come natura è immanente
l’attività del pensiero, dalla quale perciò non è possibile
staccare idealmente e rendere indipendente cotesta fan¬
tastica realtà naturale. In secondo luogo, posto che ciò
fosse possibile, e quindi realmente si potesse concepire
la realtà come natura, non sarebbe più concepibile nulla
oltre cotesta natura comprendente in sè l'universa realtà;
I
48 I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
non sarebbe più concepibile il pensiero: quel pensiero,
in servizio del quale, in quanto esso ha bisogno di
rappresentarsi la realtà qual’ è, si sarebbe escogitata
cotesta realtà naturale.
2. — Necessità di concepire tutta la realtà
realizzata dal pensiero per evitare lo scetticismo.
Ma il pensiero non realizza soltanto una realtà (la
realtà del pensiero), come parrà facilmente accettabile.
La realtà che esso realizza (cioè, appunto, la realtà del
pensiero) è la realtà; giacché se, oltre quella del pensiero,
ce ne fosse un’altra (che sarebbe poi quella realtà natura¬
listicamente concepita, di cui si parlava testé), è chiaro
che si andrebbe di nuovo incontro agli inconvenienti
propri del concetto della realtà come natura, nonché a
un terzo inconveniente derivante dal nuovo punto di
vista relativo, non più alla realtà oggetto del pensiero,
ma al pensiero stesso. Il quale, posto come reale in sé, ma
avente pure la realtà, oggetto suo, al di fuori, verrebbe
ad essere affermato e negato nello stesso tempo: affermato
nel suo essere, negato nel suo operare, in cui pur si dovrebbe j
avere la manifestazione del suo essere. Giacche il pen- ,
siero è, in quanto pensa; e pensare è conoscere la realtà,
porsi di fronte ad essa e affermarla, acquistarne coscienza.
Ora, un pensiero, per reale che sia, se ha fuori di sé quella
realtà che dovrebbe attingere e raccogliere nella cogni¬
zione, è di necessità condannato a un eterno supplizio
di Tantalo. L’oggetto, infatti, della cognizione non può
essere se non interno alla cognizione stessa; e quando si
postuli una cosa esterna, si postula come sconosciuta e
inconoscibile. Inconoscibile, perchè, se da sconosciuta do¬
vesse una volta diventare nota, T impossibilità del ri¬
scontro tra la cosa in quanto nota, e la cosa stessa in
quanto sconosciuta, qual’era in sé, nella sua pura este¬
riorità al soggetto, renderebbe impossibile la coscienza
LA REALTÀ COME PENSIERO
49
della verità di un tal conoscere, ossia renderebbe impos¬
sibile lo stesso conoscere; poiché conoscere non si può
senza la coscienza di conoscere. Costituire, adunque, un
pensiero in sé reale, ma chiuso dentro una sfera affatto
soggettiva e invalicabile, è condannarsi allo scetticismo :
affermare il pensiero, ma renderlo subito inutile; e, in¬
somma, soffocarlo.
3. — Assurdità dello scetticismo.
Nè lo scetticismo è tal partito che sia consentito dalla
logica appigliatisi ; essendo noto che lo scetticismo è la
posizione più assurda del pensiero, l’affermazione che più
violentemente neghi se stessa: poiché anche la negazione
dello scettico è un’affermazione, non potendo la mente
pensare altrimenti che affermando, cioè conferendo il
valore di verità al proprio giudizio. Ciò che allo scettico
verrebbe interdetto dal sofìstico contenuto della sua
affermazione, che non sia dato di conoscere la verità,
cioè, appunto, la realtà ».
4. — La realtà come realtà del pensiero.
La realtà del pensiero, adunque, è la realtà.
Proposizione paradossale all’orecchio dell’uomo volgare ;
voglio dire, dell’uomo che si contenta di guardare non più
in là della superfìcie del mondo, quale si presenta da prima
alla riflessione: mondo bello e fatto, che è quel che è,
sia o non sia da noi conosciuto, cioè sia che noi ci siamo,
sia che non ci siamo. Mondo che lasciamo morendo quale
l’abbiamo trovato nascendo; e che tale è quando lo guar¬
diamo, quale rimane se chiudiamo gli occhi: quel mondo
1 La realtà è la verità nella sua oggettività; la verità è la
realtà nella sua soggettività; e però veri si dicono i giudizi,
reali le cose a cui si riferiscono i giudizi veri.
Gentile. I fondamenti della filosofia del diritto.
4
50 I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
della natura, che il naturalista reputa in sè costituito,
con le sue leggi, e una sua intima essenza, che è poi
sempre imperscrutabile.
Ma proposizione ovvia e quasi banale, appena si
cominci a fermare l’attenzione su certe forme della realtà,
dove più facile riesce scorgere la sua interiore natura
dinamica; quali sono le forme della realtà che si dice
morale, in senso lato, secondo che sarà dichiarato qui
appresso.
5. — Le difficoltà dell'oggettivismo.
Le difficoltà che, sul terreno scientifico, sono state op¬
poste alla detta proposizione, in parte sono meri pregiu¬
dizi empiristici, dei quali la filosofia ha ormai fatto giu¬
stizia ; in parte ubbie ricavate da quella dommatica gnoseo¬
logia, che si regge unicamente sulle volgari rappresenta¬
zioni della coscienza ingenua: e tutte si possono radunare
sotto il titolo di oggettivismo. Giacché oggettivisti a lor
modo sono pure i psicologi che, fondando ogni conoscenza
sulla sensazione, questa si argomentano di spiegare rife¬
rendola a uno stimolo, che dicono esterno e fisico ; come
oggettivisti sono tutti gl’ intuizionisti platoneggianti, i
quali non credono si possa altrimenti salvare il valore
del conoscere, che presupponendogli una ideale realtà,
la quale trascenda tutte le singole menti individuali e si
libri nell’aer puro dell’eterno. Contro gli uni e gli altri
l’idealista si sta sicuro, chiuso nella ben munita rocca
del pensiero, che nè una schiera nè l’altra di cotali ogget¬
tivisti può smantellare, quando non voglia abdicare a quella
forza onde gli uni e gli altri combattono l’idealismo:
forza, che, evidentemente, è il pensiero: e un pensiero,
che per essi, anzi, sto per dire, sopra tutto per essi, non
vuol essere, modestamente, un pensiero qualunque, di
particolari individui che non possano parlare se non per
conto loro, ma il Pensiero, il vero pensiero, a cui anche
LA REALTA COME PENSIERO
5 1
gl’ idealisti devono piegarsi, rendendo omaggio all’ in¬
trinseco e assoluto pregio di verità di cui esso è dotato.
L’idealista, intanto, osserva che già la sensazione non
è quel dato che dice l’empirista: non è pura sensa¬
zione; perchè essa è la sensazione che si sente; cioè
coscienza (sentir di sentire, e non solo sentire). E poiché
quel tale stimolo, con cui si vuole spiegare questo
primo svegliarsi della coscienza, non è punto qualche
cosa di esterno (alla coscienza, e perciò fisico), su cui
un lampo miracoloso conceda all'empirista di lanciare
almeno uno sguardo, fuor della coscienza, cioè di se
stesso; —che sarebbe un miracolo nè pur tanto facile
a raffigurare in fantasia; — ma è nient’ altro che
una realtà concettuale, supposta in virtù d’ una co¬
struzione mentale, sorretta, a sua volta, da quel pre¬
supposto oggettivistico, che con tale teoria della sen¬
sazione si vorrebbe, invece, giustificare. Lungi dall’essere
essa spiegata dallo stimolo, la sensazione, cioè la coscienza,
è quella che col suo interno e lungo lavorìo può renderci
in qualche modo ragione di questo fantastico stimolo,
e sistema di stimoli, quale s’immagina che sia tutta
la natura fisica.
Osserva ancora 1 idealista che risibile è invero l'inge-
nuità di rappresentarsi qualcosa esterno alla psiche, po¬
nendo perciò nello spazio la psiche oltre ciò che le è
esterno. E in quale spazio ? In uno spazio intuibile
soltanto perchè la psiche che vi si proietta è una
psiche immaginaria, e psiche quasi per modo di dire;
laddove la reale psiche presente alla proiezione è quella
appunto dell’empirista. La quale, si badi bene, in uno
spazio, equivalente all’orizzonte interno alla sua propria
coscienza, si rappresenta, l’una contro l’altro, la psiche
fittizia della sua teoria e lo stimolo non meno fittizio che
su quella psiche deve operare.
Contro 1 ’ intuizionista poi che, opponendo i concetti
alle sensazioni, attribuisce ai primi un contenuto tra-
52
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
scendente quella mente che è soggetto del conoscere,
1 ’ idealista osserva egualmente che cotesto ideal con¬
tenuto non è propriamente intuito (conosciuto imme¬
diatamente), perchè ogni immediatezza è la negazione
del pensiero, il quale importa sempre un processo;
e l’intùito, come la sensazione dell’empirista, non può
essere se non contenuto della coscienza (della rifles¬
sione, diceva il Gioberti), che sola perciò è reale e concreta.
E osserva, che tutta l’oggettività che si può attribuire a
cotesta realtà ideale, non può essere se non, a sua volta,
oggetto, ossia risultato duna dimostrazione soggettiva
della mente, la quale perciò non la presuppone, anzi la
pone. E insomma, che per mezzo del pensiero non si può
uscire fuori del pensiero.
f), — Il motivo psicologico della ribellione all’ idealismo.
Soltanto, bisogna ben guardarsi dal pretendere poi che
1 ’ idealista spieghi come e qualmente il pensiero possa
generare dal suo seno non la realtà come realtà sua, sì
la realtà come natura, o come quella realtà ideale, a
modo di Platone, che è anch'essa, rispetto allo spirito
dell’uomo, una specie di natura »: la realtà insomma che,
in modo empirico o filosofico, si ritiene opposta origina¬
riamente al pensiero. Questo infatti è il più forte e comune
motivo di ribellione contro la dottrina idealistica: motivo
psicologico, si può dire, derivante dalla forza dell’abitu-
i L’idealismo platonico, si sa bene, è cosa ben diversa dal
naturalismo presocratico e contemporaneo: p. e. di Democrito.
E non è qui il caso di indicarne le fortissime differenze e anti¬
tesi. Ma quell’ idealismo oggettivistico partecipa del vizio fon¬
damentale del naturalismo, che è di concepire la realtà come
presupposto dello spirito: la quale, in tal caso, comunque si
denomini, non può, rispetto allo spirito, aver altro valore che
di natura, ossia di essere che è immediatamente, e non forma se
stesso liberamente, come fa lo spirito.
LA REALTÀ COME PENSIERO
53
dine, che persiste pur dopo che se n’ è distrutta la radice.
Giacché quello che realmente è difficile, anzi impossibile,
per l’idealista è la spiegazione di quella realtà, che non
è realtà del pensiero, ossia quel puro pensiero che ognuno
di noi sperimenta dentro di se stesso in ogni istante della
vita. È vero. Soltanto, una tale realtà alogica non è la
realtà dell’ idealista, che 1’ ha negata, e non deve perciò
spiegarla, bastandogli di spiegare il pensiero che se la
rappresenta. La quale seconda spiegazione di spettanza
dell’ idealista è poi evidentemente assai più agevole e
piana di quella, a cui è tenuto l’oggettivista, che presume
si possa intendere come, dato il reale in sé (fisico o ideale
che sia), ci sia modo di conoscerlo.
7. — Il diritto come forma di realtà spirituale.
Ma, per la ricerca filosofica speciale che ora c' interessa,
si può tralasciare un approfondimento ulteriore della
dottrina che fa generare la realtà dal pensiero. Il diritto
in verità appartiene a quelle forme testé accennate della
realtà, dove più facilmente si vede la spiritualità del¬
l’essere, e dove perciò la tesi idealistica non può incon¬
trare difficoltà quando si sia riusciti ad affisare l’essenza
di cotesta forma, che è già fermamente determinata nella
coscienza comune.
III.
LA REALTÀ MORALE
i. Cognizione e volontà.
Dove abbiamo parlato di pensiero, abbiamo inteso di
accennare così alla cognizione come alla volontà, così
all’attività teoretica come alla pratica dello spirito: che
è una distinzione della quale conviene bensì spiegare
l’origine gnoseologica, ma alla quale, come si è visto
nella Introduzione, a torto si attribuirebbe un fonda¬
mento reale in una doppia facoltà dello spirito.
2. — Facoltà dello spirito e processo spirituale unico.
Che lo spirito non si possa concepire come aggregato
o magari centro di più facoltà cooperanti, è ormai
luogo comune della psicologia moderna. Ma l’errore fon¬
damentale del concetto delle facoltà dell’anima più che
nella molteplicità loro, dove la psicologia 1’ ha perseguito
e combattuto, risiede nella nozione stessa di facoltà.
Lo spirito non è facoltà, ma atto; e se fosse facoltà,
non potrebbe mai essere atto, com' è di certo poiché ne
stiamo trattando. Non potrebbe, perchè il passaggio dalla
facoltà all’ atto è inintelligibile nella psicologia aristote¬
lica, la quale faceva intervenire dall’esterno l’energia che
traducesse in atto la potenza; e non ha più significato
nella filosofia moderna, che muove dall’ idea dello svi¬
luppo autonomo dello spirito, ossia dall’autocoscienza come
LA REALTÀ MORALE
55
sostanza d’ogni momento della vita dello spirito '. E sol¬
tanto quando si cominci ad ammettere la distinzione
tra facoltà e atto spirituale è dato di concepire una plu¬
ralità di attività spirituali. Questa pluralità presuppone
infatti uno spirito meccanicisticamente concepito, lad¬
dove la libertà sua non ammette molteplicità di sorta;
poiché libertà, come s’ è veduto, significa autocoscienza,
e non c’ è autocoscienza senza unità. La quale unità
bensì si realizza attraverso un processo, ossia attraverso
differenze; ma queste non son tali da moltiplicare l’unità
fondamentale, essendo differenze interne all’unità stessa,
che in esse si instaura, e integra, e attua: in guisa che
nessuna delle differenze sue sia dato fissare se non per
astrazione dalla vita concreta del tutto unico.
3. — Analisi del processo in cui si attua l'Io.
Guardiamo infatti a questo processo per cui l’unità
spirituale si realizza. Esso consiste nell’affermazione di sè,
mediante la quale noi siamo presenti sempre a noi mede¬
simi, con coscienza più o meno energica e vigorosa, ma
indefettibile sempre. Nel « sè », identità di oggetto col
soggetto, riflessione dell’essere su se medesimo, è il ca¬
rattere proprio dell’affermazione, ossia dell’attività per
cui si realizza 1 ’ Io. Sottrarre, per ipotesi, l’oggetto della
riflessione alla riflessione, ossia all’attività del soggetto,
è annullare la spiritualità dello spirito, quella presenza
di sè a sè, o intimità, o libertà per cui ci contrapponiamo
le cose a noi, schierandole sulla infinita circonferenza del
cerchio, di cui siamo il centro. Sottrarre, d’altra parte,
1 Autocoscienza inintelligibile nel sistema aristotelico, secondo
che fu stupendamente avvertito da Tommaso d’Aquino, quando
la trascendenza dell’atto alla potenza fu irrigidita da Averroè.
Cfr. le mie lezioni: I problemi della Scolastica e il pensiero ita¬
liano, 2 a ed. Bari, Laterza, 1923, pp. 110-112.
56 I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
l’oggetto in cui si termina quest’attività riflessiva, e la¬
sciar questa sospesa nel vuoto come libera attività del
soggetto, è distruggere parimenti soggetto e attività.
Qui ognun vede che si è innanzi a due termini, che ne
fanno uno solo, sdoppiantesi seco stesso e unificantesi
nell’atto, unico nel suo genere, che è il pensiero, onde
lo spirito si costituisce: due termini, che non sono perciò
un numero o una molteplicità, perchè la molteplicità ha
per proprio elemento l’unità; e qui non l’unità è elemento
della dualità, ma questa di quella: non si ha cioè un’unità
fuori dell’altra, con cui faccia due. Nè si può dire che l’una
e l’altra siano due parti in cui sia scomponibile il tutto
unico: perchè la legge delle parti è che l’una sia diversa
dall’altra, ed escluda quindi quest’altra da sè; laddove
nella dualità dell’autocoscienza l’oggetto bensì è diverso
dal soggetto, ma gli è anche identico, e lo ha in sè.
4 - — Esclusione di ogni molteplicità dal processo dell’ Io.
Questa essendo la natura singolare dello spirito, questa
la legge del processo in cui si attua, una vera e propria
molteplicità non può in esso intervenire se non dall’esterno.
E poiché dall’esterno sappiamo che non vi è adito, ogni
molteplicità è esclusa affatto; nè può importare per¬
tanto molteplicità la distinzione del volere dall’ intendere
o conoscere che si dica. Molteplicità intanto tale distin¬
zione importerebbe se, come d’ordinario si ritiene, il
conoscere, in quanto conoscere non fosse volere, e se il
volere, in quanto volere, non fosse conoscere.
5 - — Origine storica della dualità di intelletto e volere
e caratteri dello spirito come volontà.
La distinzione nella filosofia è sorta per opera dei pen¬
satori greci, quando il concetto del conoscere era legato
a una rappresentazione della realtà, che escludeva dal-
LA REALTÀ MORALE
57
l’idea dell’attività teoretica ogni carattere volitivo. Giac¬
ché, che vuol dire volontà ? Prescindendo dalle materiali
rappresentazioni fìsiche di effetti meccanici provocati
dalla volontà nel corpo umano e, per mezzo di questo,
nel mondo spaziale ambiente, e considerando l’attività
spirituale nella sua sede propria, o come pura attività
spirituale, rigorosamente intesa, la nozione dell’atto vo¬
litivo è determinata da questi due caratteri essenziali:
1. — che la realtà termine dell’attività volitiva non
è un presupposto, bensì un prodotto dell’attività stessa;
2. — che il soggetto, principio dell’attività volitiva,
non si può astrarre dall’atto in cui quest’attività si mani¬
festa, e quindi non si può considerare indifferente all’ essere
o al non essere della realtà a cui l’attività si riferisce.
6 . — L’attività creatrice della volontà
e la filosofia greca.
Pel primo punto, è ovvio che di volontà si può par¬
lare solo quando si attribuisca allo spirito il potere di
dar luogo a qualche cosa che naturalmente non c’ è, nè
ci sarebbe; ossia quando si attribuisce allo spirito, in
qualche modo, un’attività creatrice. Quel che c’ è na¬
turalmente, «pucrei e non Deoei, fa parte della natura,
che è, come s’è veduto, il presupposto dello spirito.
Infinitamente malagevole riuscì ai filosofi greci, di ren¬
dersi conto di questo carattere tetico della più vera realtà
che è termine dell’attività pratica umana; e la tendenza
di tutta la filosofia greca, accentuatasi sempre maggior¬
mente, secondo la logica che la governa, è di ridurre ogni
figoic; a cpvais, e negar valore a quella realtà che è vero e
proprio prodotto dell'arte umana. Ma non importa: una
volta raggiunta negli Stoici l'idea del 8fxcnov che è qwtrei
xaì ur) fléaei 1 non perciò vien negato il carattere pra-
1 Stob., Ecl. II 184.
58 I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
tico o poetico del volere; resta un lunghissimo intervallo
tra ipaùÀos e aocpós x » che soltanto la volontà, nel suo
sforzo costante di emanciparsi, può superare; e la virtù
propria della libera volontà del saggio è sì conformarsi
alla natura, e ristaurare quella piena signoria della ra¬
gione, che è la legge stessa della natura; ma importa
intanto una conformità, una conciliazione, che in virtù
della sola natura non ci sarebbe; ed è realtà prodotta dal
volere. Giacché, incapace di intuire nella sua pura libertà
la creatività dello spirito, e non potendo ridursi a con¬
siderare il volere sulla stessa linea dell’ intelletto il greco
si limita ad attribuire a quello una produttività meramente
formale, Non la realtà, secondo lui, è prodotto del volere,
ma la forma di essa, o quel che essa riesce ad essere ri¬
spetto all’uomo. Il bene, vuoi per la Sofistica che op¬
pone vogo; a fpaiais per negare valore al costume, vuoi
per Platone che ne fa un’ idea trascendente, è in sé, e
non aspetta l’opera umana per nascere: ma il bene rico¬
nosciuto praticamente (come dirà il Rosmini *), il bene
contenuto dell’azione umana, questo è il risultato dell’at¬
tività umana. Lo stesso appetito aristotelico òqe|i? non
crea l’appetibile astratto; ma l’appetibile in quanto tale
non si concepisce se non in funzione dell’appetizione.
7. — La libertà dello spirito in generale
e la filosofia greca.
Da questo necessario rapporto tra oggetto del volere e
volere, che fa che la volibilità dell’oggetto dipenda dal¬
l’attività positiva del volere, consegue l’impossibilità di
distrarre e staccare il soggetto dall’atto del volere in cui
si riversa. Questa intimità dell’atto al soggetto è infatti
la libertà del soggetto: la quale verrebbe negata dalla
1 Stob., Ecl. II 116, 120.
1 Cfr. qui sopra l’Introduzione.
LA REALTÀ MORALE
59
accidentalità od esteriorità dell’atto al soggetto stesso:
accidentalità od esteriorità, che trarrebbe origine dal¬
l’essere l’atto, non manifestazione della natura propria
di questo, ma effetto di un’azione esercitata sopra di
esso dal di fuori.
In tal guisa infatti si pensava fosse da intendere
l’atto del conoscere, non derivante dall’ intimo del sog¬
getto, bensì dalla realtà agente comunque sopra di questo;
e però non potevasi concepire che la cognizione impegnasse
internamente il soggetto, lo riformasse e lo costituisse;
così come sarebbe vano pensare che lo specchio sia reso
specchio, o migliore specchio, dal riflettervisi dentro certi
corpi. La conoscenza intellettuale è una vera e propria
illuminazione, a cui la volontà, concepita invece come
l’attività autonoma del soggetto, può preparare il campo,
ma la cui irradiazione avrà sempre una provenienza
estranea. La volontà invece è lo stesso uomo che mette
se stesso nella propria azione, ed è quello che in essa si
rivela.
La conoscenza par quasi non sia atto nostro; atto
nostro sarebbe soltanto la volontà.
8 . — Concezione moralistica del valore della scienza.
Conseguenza insieme e correzione di questo modo d’ in¬
tendere, contrapponendoli, l’intelletto e la volontà fu,
per altro, nello sviluppo dei principii della filosofia greca,
la concezione moralistica del valore della scienza. Posta
la realtà di là dall’ intelletto e intesa la cognizione come
riflesso della prima nel secondo, non sarebbe stato possi¬
bile intendere l’errore, nè quindi attribuire un valore
alla retta cognizione ; poiché non c’ è valore nell’essere
che è quel che non può non essere. Non c’ è valore nel¬
l’essere immediato. E allora il valore fu spiegato facendo
concorrere nella formazione del sapere non pure la schietta
attività intellettuale, ma altresì la virtù volitiva, che o
6 o
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
sottragga l’intelletto alle illusioni sensibili, o lo disci¬
plini e sollevi alla presenza del vero essere '.
9. — Riflesso intellettualistico nel concetto della volontà.
Il rattoppo è assurdo e vano, perchè una volontà op¬
posta all’ intelletto è volontà cieca, che non ha modo
d’indirizzarsi verso l’intelletto, che dovrebbe dirigere.
Ma l’opposizione e il conseguente rattoppo erano inevitabili
nella posizione dell’antica filosofìa che vedeva nella realtà,
oggetto della cognizione, un assoluto presupposto dell’at¬
tività spirituale, e non poteva perciò attribuire alcuna
virtù creatrice al pensiero che conosce; nè quindi conce¬
pirne la libertà. Che anzi la disperata condizione fatta al
conoscere era ostacolo insormontabile al concetto d’una
vera e piena libertà del volere. Com’ è possibile infatti,
che la volontà produca poi un’effettiva realtà, una realtà
che abbia valore saldo e assoluto, se la vera realtà (og¬
getto del sapere) è un presupposto dello spirito ?
Lo sforzo a cui s’arresta il pensiero greco, di attribuire
un valore almeno formale, come si è notato, alla realtà po¬
sta dal volere, è un mezzo termine escogitato per non ne¬
gare del tutto la produttività di esso volere; essendo
evidente che il valore del bene umano è un valore de¬
rivato, che nulla aggiungerà al valore intrinseco e na¬
turale delle cose, anteriore all’operare del volere.
io. — La libertà come creatività assoluta.
Affinchè la volontà venga concepita nel pieno vigore
di tutta la sua libertà, come principio del suo mondo,
buono o cattivo, bisogna che quella stessa esigenza che
trasse la filosofia greca a contrapporre il volere al mero
conoscere, ci spinga a superare la opposizione e a vedere
1 Cfr. qui sopra l'Introduzione, pag. 25 ss.
LA REALTÀ MORALE
6 l
codesta libertà del volere anche nel conoscere, cancel¬
lando la differenza antica ingiustificabile.
O il mondo c’ è, tutto, prima di noi, e noi non ci pos¬
siamo nulla; e quel che facciamo, non può essere più che
un vano giuoco. O c’è un mondo di cui noi siamo il prin¬
cipio ; e questo mondo non può aggiungersi a un altro
mondo, che ci sia già, e che, pel fatto di essere oggetto,
universalmente, del conoscere, sarebbe già tutto. La vo¬
lontà che operi sulla base di una natura, che la condizioni
(presupposto dell’ intelletto), non è volontà. La sua
libertà non avrà un reale significato, se non coincide con
un’assoluta creatività.
il. — La distinzione esatta tra cognizione e volere.
Pure la distinzione fra cognizione e volere ha ima sua
ragion d’essere, anche quando sia sorpassato il concetto
del vuoto intelletto, estraneo al reale. Ma è una distinzione
di cui convien assegnare l’origine gnoseologica, per in¬
tenderla nel suo giusto valore. Noi guardiamo, per così
dire, da due diversi aspetti la realtà: ora dal di fuori,
e ora dal di dentro. La realtà, s’intende, realizzata dal
pensiero. La quale ora ci apparisce come natura o come
volontà, e ora come pensiero. E natura o volontà, quando
l’atto che la realizza si considera già compiuto; com¬
piuto da un soggetto empiricamente assegnabile (volontà)
o da un soggetto assegnabile solo metafisicamente (na¬
tura). E pensiero quando invece l’atto che la realizza si
compie nel pensiero stesso onde si pensa. Pensando a
un atto di volontà già compiuto il mio pensiero si con¬
trappone come teoria alla pratica, come intelletto al volere.
Ma, per contrapporsi, esso deve pure opporre a sè cotesto
atto volitivo, ponendolo in virtù di un atto, che è cono¬
scitivo, in quanto tetico e creativo.
Sicché, a guardarsi dentro, il pensiero non si trova ad
essere pensiero contrapposto a volontà, bensì pensiero
62
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
come volontà. E l’atto volitivo che, obbiettivato, il pen¬
siero intuisce quindi dall’esterno e ritraendo la propria li¬
bera produttività nell’obbiettivazione stessa, se si considera
non quando è obbiettivato, ma nell’atto suo (quando la
realtà è sua e non dell’atto che l’obiettiva e l’assorbe in
sè), allora è sì volontà, posizione di essere, libertà, ma nè
più nè meno dell’atto per cui poi si conosce, come realiz¬
zazione di realtà spirituale, che è autocoscienza. Io, che
si pone conoscendosi.
12. — Teoria della volontà.
Lo spirito insomma non è ora intelletto e ora volontà;
ma ora si conosce come intelletto, e ora come volontà,
essendo sempre intelletto in quanto volontà, e viceversa.
La quale volontà, — giacché oramai se ne può parlare
senza pericolo di equivoci intorno all’unità dello spirito,
— quando si dice creatrice, non si deve intendere già
quasi creatrice di un mondo che esca dal suo essere, e
si ponga per sè, indipendente dal principio positivo donde
emana.
Questo è punto fondamentale per 1 ’ intelligenza di
ogni realtà morale. La volontà è posizione di se mede¬
sima, così come la conoscenza è autocoscienza, posizione
di sè (s’intende, innanzi a sè). Volere qualche cosa, ove
si attribuisca al volere il suo significato proprio, non
significa mai indirizzarsi a una cosa già realizzata: p. e. a
un oggetto che già sia in vendita; ma, per rimanere nello
stesso esempio, all’atto dell’acquistare l’oggetto stesso.
E il termine del volere è sempre l’atto: acquistare, ven¬
dere, coltivare, curare, trattare, maltrattare, conser¬
vare, distruggere. Nè l’atto che è oggetto della volontà
è mai atto fisico (termini, a rigore, contradittorii), come
parrebbe p. e. il passeggiare, il mangiare e simili. Il fine del
volere, anche in questi casi, e sempre, è l’essere del sog¬
getto a cui codesti atti corrispondono: essere, che la
LA REALTÀ MORALE
psicologia empiricamente ha detto giacere, e che non è
altro che l’atto stesso dello spirito nella sua pura effet¬
tualità ». Giacché lo spirito agendo non si muove da sé
verso altro; non passa da sé in uno stato in cui si sia
determinato, a sé in un separato stato ulteriore; ma si
muove da sé a sé, senza che il punto di partenza si possa
distinguere realmente dal punto di arrivo. E ciò in forza
di quell’unità di due, o sintesi a priori, in cui abbiamo
detto consistere l’essenza della realtà spirituale. Onde il
line non si stacca dal soggetto che lo persegue; è lo stesso-
soggetto che persegue se medesimo, e, perseguendosi, è,
conformemente alla sua natura dinamica e dialettica.
13 - — La dialettica della realtà spirituale.
Dialettica dicesi la vita in cui sussiste la realtà spiri¬
tuale, in quanto essa non si può pensare mai nè come sol -
tanto positiva, nè come soltanto negativa; e il suo essere
pertanto è non essendo e però ponendosi; ma ponendosi
senza fissarsi mai nell’essere già posto, senza che si esau¬
risca mai il processo di posizione. Una realtà spirituale
già fissata è una realtà già materializzata, annullata spi¬
ritualmente; e se realtà c realtà spirituale, annullata asso¬
lutamente. Quindi è che una realtà affatto inerte riesce
inconcepibile; e quindi anche l’esperienza di tutti i mo¬
menti, che l’arrestarsi del lavoro spirituale non importa
già l’arresto dell’evoluzione spirituale, bensì 1' involuzione,
il logorìo e il dissipamento del già acquisito.
14 - — La teoria kantiana dell’autonomia del volere,
suo significato e sua estensione al concetto universale dello spirito..
In forza adunque della sua dialettica il soggetto voli¬
tivo precipita di continuo nell’atto che è il suo fine, non
1 Cfr. il mio Sommario di pedagogia, Firenze, Sansoni, 1934 I 5 ,
PP- 33 segg.
64 I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
lasciando nessun residuo dietro di sè, di qua dal fine. Il
quale non trascende perciò il soggetto, anzi è identico ad
esso, sempre che questo si consideri, come si deve, nella
sua dialettica. E qui può vedersi la sostanza di verità che
si cela nella celebrata dottrina di Kant, che contrap¬
pone il volere morale autonomo al volere eudemoni¬
stico, empiricamente determinato come eteronomo. La
legge del volere è il suo fine determinante ; ed è verissimo
che il volere non può esser morale se non toglie da se
medesimo il suo proprio fine e la sua legge. Morale qui
non ha altro significato se non quello di spirituale, cioè
avente un valore , un pregio assoluto, in guisa che nulla
gli si possa preferire, ed esso perciò obblighi e s’imponga
in maniera categorica. La quale moralità, se ben si ri¬
flette, non è forma speciale di spiritualità: pratica p. es.
e non teoretica, come Kant e tanti dopo di lui han cre¬
duto; con la conseguenza, di tanto pregiudizio a tutto il
sistema del pensiero kantiano, che l’autonomia o libertà
dello spirito si richieda al concetto della morale, e non
invece a quello della scienza (alla ragion pura pratica e
non alla teoretica) *.
Cotesta moralità, che è la sola che ci sia, investe ogni
momento della vita dello spirito, che non può non essere
sempre di un valore assoluto (chiamisi di verità, di bellezza,
di bontà, o altrimenti) : valore inintelligibile, se non corri¬
sponde a un dover essere imprescindibile hic et nunc in
virtù della libertà. Imprescindibile, universalmente: giac¬
ché chi dice imprescindibile, dice necessità; e non c’ è
necessità senza universalità. Il giudizio (detto estetico),
che mentre parlo m’ impone l’uso di una certa parola,
unica e quindi assolutamente insostituibile, è una legge
(la stessa dialettica attuale del mio spirito), la quale può
logicamente valere come legge pel mio spirito, in quanto
mi si rappresenta dotata d’un valore capace d’imporsi
Cfr. Teoria generale dello spirito ', pp. 69-71.
LA REALTÀ MORALE
65
ad ogni altro spirito: ad ogni altro spirito, s’intende
che si trovi nel caso mio, che è il caso della legge: che è
la condizione e il presupposto di qualsivoglia legge in¬
trinsecamente e altamente universale.
1 5. — Impossibilità di isolare il valore estetico dal morale.
Si dice che codesta è una legge estetica e non morale.
E la distinzione regge finché ci si contenta di considerare
l’arte come un puro giuoco, o come bensì la soddisfazione
d’un eterno bisogno dello spirito, ma un bisogno che c’ è,
e potrebbe anche non esserci. Ma quando l’arte diventa
momento necessario della vita spirituale, quando essa
vien concepita come educazione, formazione e insomma
realizzazione dello spirito; allora deve apparire inconte¬
stabile che, se il regno del bene è il regno dello spirito,
se l’aspirazione morale è l’aspirazione all’ incremento del
mondo spirituale (giacché tutti i doveri hanno qui la
loro radice), dire la parola che esteticamente è richiesta,
è pure adempiere un dovere, allo stesso titolo per cui
adempie un dovere anzi propriamente il dovere \ chi col¬
tiva il proprio animo e la propria mente, o l’animo e la
mente altrui, e rispetta le opere d’arte, conservandole,
con quella stessa riverenza verso la santità dello spirito
che gl’ impone il rispetto della vita altrui e quell’amore
onde si alimenta e promuove la vita spirituale, nostra e
d’altri.
16. — Immanenza del valore morale in quello estetico.
Si può tuttavia replicare: — Ammesso pure questo
carattere morale dell’attività estetica, non ne deriva che
1 Non c’è se non sempre un solo dovere, che è quello dell'atto,
fuori del quale non c’ è materia di doveri; e gli altri son sempre
ipotetici; cioè non propriamente doveri; cfr. più innanzi cap. IV,
§ io; e il mio voi. Guerra e fede, Napoli, Ricciardi, 1919, p. 13.
Gentile, I fondamenti delia filosofia del diritto.
5
66
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
ogni valore sia morale, bensì che ogni valore è anche mo¬
rale: nel caso accennato, la parola, prima di essere e per
essere moralmente necessaria, deve già essere necessaria
esteticamente; sicché può dirsi che il valore morale sia
il valore supremo o fondamentale, ma non il solo. —
Dove è certamente del vero; ma conviene pure che ben
si distingua. Astrattamente considerando, noi ci troviamo
innanzi al valore puramente estetico, così come, in psico¬
logia, per analoga astrazione, ci troviamo innanzi alla
sensazione che è sensazione e non è percezione o co¬
scienza di sentire: e come dobbiamo dire che non si
percepisce se non quel che si sente, così dobbiamo pur
dire che il valore estetico-morale è morale perchè è este¬
tico. Ma, appena si passi dall’astratto al concreto (dalla
psicologia alla filosofia), ci accorgiamo di dover inver¬
tire simili proposizioni. Noi infatti non percepiamo quello
che sentiamo, anzi sentiamo quello che percepiamo: ossia
una sensazione appartiene alla coscienza, cioè a noi, solo in
quanto è risoluta in una percezione, della quale essa è
soltanto un oggetto interno, e distinguibile quindi solo
astrattamente. Così il valore estetico lo cogliamo bensì
come valore, cioè come atto dello spirito, ma in quanto
è morale; e in fondo all’atto morale giace esso, come suo
oggetto interno, che non può esserne astratto e conside¬
rato in sè, scisso dal concreto dell’atto spirituale, morale
nella sua libertà, senza svanire. Di che nessuna prova è
più manifesta del fatto che, malgrado superficiali appa¬
renze, non c’ è arte che non sia essenzialmente (voglio
dire nella sua stessa esteticità) morale, come realizza¬
zione di una superiore vita dello spirito.
iy. — Relazione del valore teoretico col morale.
La questione del valore estetico si connette con quella
del valore teoretico, che è l’analogo del concetto di atti¬
vità puramente teoretica o intellettuale: della cui opposi-
LA REALTÀ MORALE
67
zione all’attività pratica abbiamo detto. Onde il valore
teoretico (verità) sta al valore morale, come l’intelletto
sta al volere. La necessità stessa che ci trae a considerare
l’intendimento, la visione della verità, come un’azione,
ci conduce insieme a considerare la verità come bene.
18, — Il iene.
Il bene, in conclusione, è il valore dello spirito nella sua
attualità dialettica; e si può dire la maggiore concretezza
della realtà spirituale, cui conviene in fondo guardare,
quando se ne vogliano determinare le forme e i momenti,
o quando si voglia ascoltare le più schiette ispirazioni della
nostra coscienza. Morale è l’atto spirituale in quanto rea¬
lizzazione dello spirito ; e la negazione della moralità non
si può perciò concepire come reale momento della vita
dello spirito senza entrare nel concetto dello svolgimento
spirituale.
IV.
LO SVOLGIMENTO, L* INDIVIDUO E LA SOCIETÀ
x, — Valore e disvalore (bene e male) come opposti
nell’atto identico dello spirito,
e impossibilità di aver l’uno senza l’altro.
Il valore si oppone al disvalore, ed è negazione reale di
questa sua negazione. Giacché i due termini non si contrap¬
pongono soltanto logicamente, ma nell’attualità della vita
interiore, in cui il bene è sempre vittoria sul male, nè con¬
serva il suo pregio ove sparisca il nemico da combattere
e da sconfiggere. Questo nemico ora apparisce esterno, e
ora interno al soggetto. Nemico esterno è il male che av¬
vertiamo negli altri, e che in vari modi, e in generale con
l’educazione combattiamo, per far prevalere la volontà
buona che ci è propria. Nemico interno è la nostra bassa
cupidiglia, 1’ inclinazione egoistica e irrazionale, che ogni
vigile coscienza sorprende ad ora ad ora nel suo proprio
fondo, e che si sforza quivi stesso di reprimere e sotto¬
mettere alle finalità superiori. Ma nell’un caso come nel¬
l’altro il vero nemico è interno, ed equivale all’attuale
momento negativo della nostra effettiva realtà spirituale.
Il male, ogni sorta di male, riducibile sempre sotto la
categoria negativa del disvalore morale, non è un’entità
per sé stante, sì un oggetto di giudizio; fuori del quale non
è possibile trovarlo. Tutta la realtà di un’ ingiustizia non
si manifesta (non vale per quella realtà che essa è, in
quanto realtà morale) se non nella coscienza che la valuta.
Pongasi pure come naturale la giustizia, e attribuiscasi
LO SVOLGIMENTO, L’ INDIVIDUO F. LA SOCIETÀ 69
quindi a una legge di natura la forza negatrice dell’ in¬
giustizia: rimane sempre che la stessa voce che grida ven¬
detta contro l’ingiusto non esce dal seno di cotesta na¬
tura se non è udita, se non risuona nella coscienza. La
violazione della legge (quale che sia questa legge) presup¬
pone la legge I . E non si può contrapporre perciò volontà
ingiusta a volontà giusta se non dentro a questa, norma
di sè e del suo opposto (veritas norma sui et falsi). Ciò che
combattiamo, adunque, è ciò che vediamo e riproviamo.
2. — Il male come momento interno del bene.
Ma il riprovare non è l’antecedente di un’ulteriore
volontà che instauri il bene al luogo del male già negato.
L’atto del riprovare e quello del volere il bene sono un
solo atto : atto che non è negativo, bensì positivo. Giacché
quella volontà che riprova e condanna, essa stessa è vo-
1 E questo è il profondo germe di verità contenuto in quella
dottrina di Spinoza, che nega la discriminazione del bene dal
male nello stato di natura : « Nihil in statu naturali dari, quod ex
omnium consensu bonum aut malum sit; quandoquidem unusquis-
que, qui in statu est naturali, suae tantummodo utilitati consulit,
et ex suo ingenio, et quatenus suae utilitatis tantum habet ratio-
nem, quid bonum quidve malum sit, decemit, et nemini, nisi
sibi soli, obtemperare lege ulla tenetur. Atque adeo in statu natu¬
rali peccatum concipi nequit: at quidem in statu civili, ubi et
communi sensu decemitur quid bonum quidve malum sit, et
unusquisque civitati obtemperare tenetur. Est itaque peccatum
nihil aliud, quam inobedientia, quae propterea solo civitatis iure
punitur; et contra obedientia civi meritum ducitur, quia eo ipso
dignus iudicatur, qui civitatis commodis gaudeat. Deinde in statu
naturali nemo ex communi consensu alicuius rei est dominus, nec
in natura aliquid datur, quod possit dici huius hominis esse et
non illius; sed omnia omnium sunt, ac proinde in statu naturali
nulla potest concipi voluntas unicuique suum tribuendi, aut alicui
id, quod eius est, eripiendi; hoc in statu naturali nihil fìt, quod
iustum aut iniustum possit dici; at quidem in statu civili, ubi ex
communi consensu decernitur quid huius quidve illius sit»:
Etti. IV, pr. 37 sch. 2.
70 I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
lontà di bene. E quindi il bene si realizza nel punto stesso
che si oppone al suo opposto. Così è che in ogni caso,
paia esterno il male ed altrui, o interno e nostro, il volere
buono è una crisi interiore onde il bene nasce dal male:
e nasce, non presupponendolo, ma ponendolo nell’atto
con cui lo nega e se ne trae fuori.
Tale essendo la natura del male, ognun vede che può
dirsi essere l’atto spirituale atto immanentemente buono
senza che per ciò venga a cancellarsi la distinzione di bene
e male: cancellata la quale, sarebbe invero distrutta ogni
possibilità di bene. Ma il male non è separato dal bene,
in modo che possa tenergli testa, e contrastargli even¬
tualmente la vittoria. Il male è la carne, come appunto
vuole Paolo di Tarso, ma la carne dello spirito (quella
carne che gli occhi di Paolo scoprono) : quella cioè che lo
spirito avverte e respinge, e che è carne per esso: e in¬
tanto perciò è, in quanto è vinta, assorbita in esso, spiri¬
tualizzata. La sua realtà consiste nell’alimentare il fuoco
spirituale, nel dare costantemente allo spirito nuova esca.
In se stessa, è niente.
3. — Lo svolgimento e l’ individuo come universale.
Il bene insomma o volontà è svolgimento, la cui attua¬
lità importa il momento negativo, il male; senza del quale
lo svolgimento, il diventare del bene, cesserebbe, e il
bene verrebbe meno.
Questa tragica natura dello spirito, che ci riapparisce
ad ogni tratto a illuminare gli aspetti più oscuri della
sua vita, è anche il principio da cui bisogna rifarsi per
intendere quel contrasto d’ individuale e universale in
cui si travaglia la morale. Questa infatti è realizzazione
dell’universale, come abbiamo veduto, poiché è la rea¬
lizzazione dello spirito. E intanto questa realizzazione
pare sia affidata all' individuo, che, particolare per la
sua natura, dovrebbe agire come volontà universale. In
LO SVOLGIMENTO, L’ INDIVIDUO E LA SOCIETÀ 71
verità, se l’individuo fosse puro particolare ( natura , come
dicono i teologi), non c’ è dubbio che a lui, alle sue sole
forze, sarebbe in eterno negata ogni possibilità di bene,
ove non intervenisse l’esterno sussidio miracoloso di una
grazia sovrumana. Ma questa posizione dell’ individuo —
che si riflette nelle tante astratte escogitazioni, più o
meno hobbesiane, delle forme egoistiche, individuali¬
stiche e anarchiche della vita morale — è affatto fanta¬
stica. Giacché, per sforzi che si faccia di concepire abbrutiti
e imbestiati gl’ individui umani, pur che si conservi
loro una piccola scintilla del fuoco divino dell’ intelli¬
genza onde possano essere condotti quando che sia a
celebrare la loro umana natura, non v’ ha modo di spo
gliarli dell’ Io, dell’autocoscienza; la quale importa sem¬
pre un’affermazione, quindi un giudizio, quindi la piena
ed assoluta universalità, che già si è illustrata come pro¬
pria d’ogni più elementare attività spirituale. Nè cotesta
universalità si può far accedere e aderire alla natura par¬
ticolare dell’ individuo a guisa di estrinseca luce che
venga ad illuminarlo. La luce dev’essere sua, la sua intima
mentalità, il centro stesso del suo essere; senza di che ci
sarebbe in lui un autocoscienza e, in generale, la cogni¬
zione, ma egli non sarebbe autocoscienza, nè conoscerebbe.
L’individuo, in conclusione, è universale in quanto non è
essere della natura, oggetto dello spirito, ma soggetto, lo
spirito. E la sua legge morale appunto perciò non è niente
di sopraggiunto, quasi missione che gli s’imponga ab extra,
o croce che gli si getti sulle spalle ; bensì la sua stessa vita.
4 - — L'egoismo rispetto al materialismo e rispetto all' idealismo:
il particolare dell’ individuo
come grado del volere universale.
Se così è, l’egoismo, realisticamente inteso, è una chi¬
mera, e il bellum omnium cantra omnes il parto di una
immaginazione materialistica, come quella di Hobbes, che
non vedeva il mondo se non attraverso il corpo; il quale,
7 2
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
infatti, collocato nello spazio, è uno tra molti, e com¬
prende in sè una infinita moltitudine di elementi. E quegli
stessi fatti, a cui l’empirismo materialistico si appella per
dimostrare la reale opposizione delle tendenze naturali
egoistiche dello spirito umano alla universalità della legge
morale, sono piuttosto, chi sappia intenderli, la più evidente
riprova della verità dell' immanentismo, che fa della legge
stessa il ritmo essenziale della vita dello spirito. Giacchi-
tutti questi fatti, facilmente osservabili non solo nella
psicologia dell’uomo primitivo o dell’ infanzia, ma in ogni
più elevato grado dello sviluppo umano, sono una più o
meno violenta affermazione dell’universalità del volere,
che non sa, non può realizzarsi come volere tra voleri, un
volere che non sia se non accidentale e particolare, e che
abbia una sua legge, diversa da quella degli altri; ma è
portato dalla sua natura a porsi come il Volere, fuori
del quale non sia possibile altro volere : che è la forma carat¬
teristica del volere morale. L’egoista sbaglierà, non per
cattiva soluzione che egli dia al problema della sua vita,
ma per cattiva posizione di questo problema: il quale,
posto in quei termini, non può dalla coscienza morale
(volontà universale) esser risoluto diversamente.
Dalla cattiva posizione del problema morale nei singoli
individui nasce il conflitto, la guerra; ma la guerra non
ha il proprio fine in se stessa; la guerra è 1’ instaurazione
della pace, risoluzione di una dualità o pluralità nel vo¬
lere unico, la cui realizzazione è immanente nel conflitto,
e ne rappresenta la vera ragion d’essere e il significato
profondo. Sicché c’ è bensì la guerra; e ci sono gli inte¬
ressi particolari in contrasto delle volontà diverse; ma
il conflitto, in cui le singole volontà appariscono nella
loro particolarità, scoppia e permane, finché permane,
perchè ciascuna di co teste volontà non ha coscienza della
propria particolarità e si sforza di realizzarsi come uni¬
versale; e cessa, quando cessa, perchè si risolve in una
volontà dimostratasi, mediante il conflitto, universale.
LO SVOLGIMENTO, L* INDIVIDUO E LA SOCIETÀ
73
5 . — La volontà come concordia discors.
Ma questo conflitto, che è il travaglio interiore del
volere universale nel suo realizzarsi, non va empirica¬
mente concepito come un periodo transitorio, intermedio
tra un individualismo, inconsapevole tuttavia della sua
particolarità, e una sostanza universale che si realizzi
più tardi per la negazione delle forme individualistiche
del volere. Una tale giustapposizione di guerra e pace
non corrisponde alla dialettica della vita spirituale, dove
ogni pace e ogni guerra ha la sua radice e la sua realtà
più vera.
Una pace senza guerra non è possibile, perchè la
pace non è altro che vita della volontà; la quale non può
vivere se non risolvendo seco stessa, ad una ad una, in
eterno, le forme inesauribili dell’ immanente conflitto da
cui si sprigiona Tesser suo come attuazione di sè. Ci sa¬
ranno conflitti più violenti, e conflitti meno violenti; ma
la volontà è sempre concordia discors : e la discordia in
cui appariscono gl’ interessi particolari è momento della
concordia, in cui gli interessi divergenti sono pacificati
nell’universalità del volere unico.
6. — V individuo e la società
come processo di realtà spirituale.
L’ individualità particolare, che l’agire morale nega e
risolve nella sostanza universale, non è dunque nulla di
reale, ma T ideale momento interiore dell’atto morale.
Solo alla luce di questo concetto è possibile sorprendere
T individuo particolare nella immanente realtà morale
del mondo che si regge sulle colonne della giustizia. E
attraverso a questo spiraglio luminoso certo si può facil¬
mente gettare lo sguardo dentro alla vita reale del sog¬
getto del mondo morale, che, empiricamente considerato, è
74
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
una persona particolare. Giacché, quando si sia intesa
correttamente l’essenza di quella negatività dell’universale
in cui si appalesa 1’ individuo nei conflitti che si dicono
sociali, si fa tosto evidente la natura, per dir così, assoluta-
mente sociale dello spirito umano, che all'osservazione em¬
pirica apparisce soltanto come un elemento della società «.
Qualunque sia il nucleo sociale che si tolga ad
esempio (l’amicizia, la famiglia, la scuola, lo Stato, la
Chiesa), la realtà che in esso si realizza è una sostanza spi¬
rituale, intelligibile soltanto come processo: mai è, e
sempre è, ma solo in quanto e per quanto liberamente si
realizza. Libera realizzazione che, come sappiamo, esclude
il distacco tra il non esser suo e il suo essere; in guisa che,
se si realizza come universale, questa sostanza spirituale
non è concepibile se non come racchiudente in sé l'ele¬
mento particolare che resiste all’ infinito alla universa¬
lizza?,ione. Una società che unifichi perfettamente il vario
spirituale, senza lasciare più traccia di varietà, è una
società che si disfà interiormente e perde ogni vigore
spirituale. Anzi, a rigore, è già morta.
E l’opposizione perenne e sempre rinascente degli inte¬
ressi e delle aspirazioni e, insomma, dei voleri, che ali¬
menta e tiene in vita l’unità dialettica e dinamica d’ogni
costituzione sociale. Ma cotesta opposizione non sarebbe
1 Di qui si vegga l’errore del principio universale del diritto
indicato da Kant (Metaph. Anfangsgrùnde der Rechtslehre in
Werhe, ed. dell’Acc. di Berlino, Bd. IV, pp. 280-1), secondo il
quale, giusta sarebbe ogni azione « che può conciliarsi, o secondo
la cui massima la libertà di tutti può conciliarsi, con la libertà
di ciascuno secondo le leggi universali»; e della conseguente
legge universale del diritto : « Agisci esternamente in modo che
il libero uso del tuo arbitrio possa Conciliarsi con la libertà di
tutti secondo una legge universale ». L'accordo delle volontà libere,
dove solo è possibile la realizzazione d’ogni singola volontà li¬
bera, non è il carattere proprio della società giuridica, ma di ogni
società, perchè è il carattere della vita dello spirito nella sua
individualità.
LO SVOLGIMENTO, L’ INDIVIDUO E LA SOCIETÀ 75
una spirituale opposizione se risultasse di elementi parti¬
colari separati, ognuno dei quali stesse per sè, e rappre¬
sentasse l’atto di un soggetto estraneo ad ogni altro sog¬
getto. Il mio interesse può essere in contrasto con l'in¬
teresse altrui solo ad un patto ; che l’interesse altrui sia
pur mio. Io non contrasto a un bambino il possesso d’un
giocattolo, nè Napoleone dichiarerà guerra ad Alessan¬
dro Magno. Gl’ individui cioè sentono la loro partico¬
larità egoistica e repellente in quanto convengono e si
scontrano, come due atti di giudizi contradittorii, in
un oggetto, che sia un identico oggetto di volere; anzi
nello stesso volere, stando l’uno per l’affermazione, e
l’altro per la negazione. Onde la particolarità del volere
(da risolvere nell’universale) consiste in quella negazione
della propria affermazione, la quale è insita nella na¬
tura stessa di questa, e senza la quale questa non sa¬
rebbe atto, ma fatto; non azione dell’uomo, ma l’essere
delle cose naturali.
7. — La società inter homines
e la società in interiore homine.
Insita, ho detto. Perchè non c’ è affermazione volitiva
che non sia esclusione e soppressione della sua rispettiva
negazione ; per modo che Robinson Crusoe nella sua isola,
e prima di conoscere Venerdì, non può non realizzare il
proprio volere con quel processo medesimo che è proprio
del volere d’ogni individuo vivente in società: negando
cioè quell’opposto del volere stesso nel suo valore univer¬
sale, che è il momento particolare o finito del volere nella
società. La quale adunque, se empiricamente è l’accordo
degl’ individui, speculativamente è la realtà del volere nel
suo processo. Sicché il valore universale s’ instaura con
1 ’ immanente soppressione dell’elemento particolare. Essa
non è perciò inter homines, ma in interiore homine ; e
tra gli uomini è solo in quanto tutti gli uomini sono, ri-
76
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
spetto al loro essere spirituale, un uomo solo ', che ha
un solo interesse, in continuo incremento e svolgimento:
il patrimonio dell’umanità.
8. — L’autorità e la legge.
Qui pure è dato agevolmente di scorgere il significato
speculativo di quell’elemento che è stato in ogni tempo
ritenuto essenziale al concetto della società, affinchè
questa abbia una realtà positiva e concreta. Chi dice
società, dice autorità, volontà superiore che disciplini le
volontà associate, unificandole in una legge comune. Il
corpo politico, lo Stato, come popolo o insieme dei cit¬
tadini è, agli occhi del Rousseau, qualche cosa di passivo.
La forza, l’attività sua è nel sovrano. Anche la scuola è
un’associazione spirituale, e suppone il maestro, che dia
norma agli scolari, li la famiglia è unificata nella volontà
del padre. Ma vi son pure forme sociali, come l’amicizia,
in cui l’unità del volere si celebra liberamente senza bi¬
sogno di formale riconoscimento d’una empirica volontà
1 A quest’uomo pensava in fondo il Rousseau quando de¬
terminava l'essenza del patto implicito in ogni costituzione so¬
ciale: « Chacun de nous met en commun sa personne et tonte
sa puissance sous la suprème direction de la volonté générale;
et nous recevons en corps chaque membre cornine partie indi-
visible du tout»; e da questa formula deduceva che « l’acte d'as-
sociation renferme un engagement réciproque du public avec
les particuliers, et que chaque individu, contractant, pour ainsi
dire, avec lui-mime, se trouve engagé sous un doublé rapport,
savoir: comme membre du souverain envers les particuliers, et
comme membre de l’État envers le souverain»: Du conir. soc.,
I, 6 e 7. Il R. stesso soggiunge che non è applicabile qui la massima
del diritto civile che nessuno è tenuto agli obblighi assunti verso
se stesso: « car », egli dice, « il y a bien de la différence entre s’obliger
envers soi ou envers un tout dont on fait partie ». Nel primo
caso, cioè, si considera 1’ individuo nel suo elemento negativo;
nel secondo, invece, ne suo elemento positivo.
LO SVOLGIMENTO, l’ INDIVIDUO E LA SOCIETÀ 77
superiore, senza che si possa dire perciò che a tali forme
di socialità venga a mancare quel che c’ è di sostanziale
e attuale nel suggello dell’autorità, la volontà superiore
e direttrice. La quale ritrae il titolo della propria supe¬
riorità, non da una forza meccanica che operi dall’esterno
sulle volontà soggette, ma dalla stima (nel più largo si¬
gnificato del termine) ond’essa apparisce degna, e dal
valore intrinseco che le si attribuisce. Non è il maestro che,
con l'autorità sua, fa accettare la verità, ma è la verità
che rende autorevole il maestro. E 1’ ipse dixit non nasce
ex-abrupto ; ma presuppone una già sicura e ben com¬
provata esperienza della gran familiarità del maestro coi
segreti della scienza. Comunque, quale che sia il grado
di razionalità delle considerazioni che c’ inducono a rico¬
noscere un’autorità, questa è reale in forza del nostro
riconoscimento; e tutte le speculazioni, onde i filosofi si
sono argomentati di fondare in un’autorità superiore alla
volontà nostra la forza delle leggi a cui essa è sottoposta,
sono state sempre vane logomachie, essendo ben chiaro
che, per alta che sia cotesta autorità, essa non sarà mai
se non a quell’altezza a cui l’avremo noi collocata. Dire
autorità non è altro che dire legge, legge, beninteso, fon¬
damentale, e che sia assolutamente legge.
9 . — La legge e le leggi.
Giacché di leggi ve n’ ha due: una unica, e veramente
legge; l’altra infinitamente molteplice, e legge sì e no, e
solo in virtù della prima. Così, in uno Stato c’ è ima legge
costitutiva, che conferisce a certi organi la facoltà di legi¬
ferare; e ci sono leggi particolari, in cui questa facoltà
si spiega; le quali possono abrogarsi così come sono pro¬
mulgate, e lo Stato resta, e deve restare perchè abbia
valore l’abrogazione, come ne ebbe la promulgazione.
Sicché queste sono e non sono le leggi, secondo i momenti
diversi dello svolgimento storico di uno Stato; e quando
78 I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
sono, traggono il loro valore di leggi dalla legge fonda¬
mentale, senza la quale gli organi legislativi non avrebbero
quell’autorità, alla quale i cittadini devono piegarsi nel¬
l’osservanza di ogni singola norma legislativa. E così in
ogni società, in cui è un’autorità, sorgente di norme ai
sottoposti, tutte le norme particolari, che possono esserci
e non esserci, presuppongono quella che è la norma sta¬
tutaria, da cui l’autorità vien costituita nella sua capacità
di dettar norme. E riconoscere l’autorità significa pertanto
riconoscere questa norma o legge.
io. — Le leggi come vita della legge.
La quale legge unica e immanente non è poi da distin¬
guersi numericamente dalle leggi particolari; attraverso le
quali vive, creandole via via con la sua virtù creatrice e
tutte distruggendole ad una ad una l , per dimostrare la
propria immortalità. Che non è, beninteso, l’immortalità
di nessuno statuto politico o sociale, ma la legge morale
(la vita dello spirito), quell’unico dovere, che ad ogni
istante della nostra vita ci apparisce un dovere determi¬
nato sempre nuovo e sempre inadempiuto; ma traluce
essa nella costanza relativa d’ogni istituto che si perenna,
sì nella vita politica secolare d’un popolo, e sì nelle du¬
revoli amicizie dei privati. I quali, pertanto, attraverso la
norma, dettata dalla reciproca stima, hanno quell’auto¬
rità sovrana immanente, da cui traggono origine e vigore
tutte le più minute leggi, da cui ad ora ad ora è pur rego¬
lato ogni più ristretto consorzio.
li, — Intimità d’ogni autorità e d'ogni legge.
E l’autorità o sovranità non manca nè meno nel foro
interno della persona, che dicesi individuale, se essa
1 Tutte le leggi sono distrutte, e tutte anche sono conservate,
corrette, e trasformate in forme sempre più adeguate alla legge.
LO SVOLGIMENTO, L’ INDIVIDUO E LA SOCIETÀ 79
coincide con la legge. E come tutte le leggi si fondano
nella legge di osservare le leggi (fare il proprio dovere),
che non sono se non le forme diverse che essa viene assu¬
mendo nel suo sviluppo; così tutte le autorità si fondano
nell’autorità ond’ è rivestito dentro ciascuno di noi, nel
seno dello spirito, che è il più proprio essere di ciascuno
di noi, lo stesso soggetto spirituale, la universale persona,
e il vero sovrano onde ogni stato è attivo. Questo sog¬
getto è quello infatti che impone tutte le leggi, e tutte
le fa riconoscere.
V.
L' INTERNO E L’ ESTERNO DELLA LEGGE
i. — La forza come principio del diritto.
Il soggetto della legge è pure il soggetto della forza
che la esegue: l’attività dello spirito. Dove non puoi
distinguere, se non per astrazione, forza e legge; perchè
la legge non è un prius nè un posterius rispetto alla
energia che la pone nella sua realtà osservandola libera¬
mente. La legge è pel soggetto l’atto stesso del suo rea¬
lizzarsi.
E così essendo, bisogna riconoscere che aveva affatto
ragione lo Spinoza, dal suo punto di vista naturalistico,
a porre la forza, e la sola forza, a base del diritto, nel
senso lato in cui egli l’intendeva 1 ; salvo che egli non
« « Per ius et institutum naturae nihil aliud intelligo, quarti
regulas naturae uniuscuiusque individui, secundum quas unum-
quodque naturaliter determinatum concipimus ad certo modo
existendum et operandum. Ex. gr. pisces a natura determinati
sunt ad natandum, magni ad minores comedendum; adeoque
pisces summo naturali iure aqua potiuntur et magni minores
comedunt. Nani certuni est, naturam absolute consideratam ius
summum habere ad omnia quae potest, hoc est, ius naturae eo
usque se extendere, quousque eius potentia se extendit. Naturae
enim potentia ipsa Dei potentia est, qui summum ius ad omnia
habet; sed, quia universali potentia totius naturae nihil est
praeter potentiam omnium individuorum simul, hinc sequitur,
unumquodque individuum ius summum habere ad omnia quae
potest, sive, ius uniuscuiusque eo usque extendere, quo usque eius
determinata potentia se extendit. Et quia lex summa naturae
I.' INTERNO E L’ ESTERNO DELLA LEGGE Si
avvertiva, come nessuno al tempo suo avvertiva, che in
natura, di là dalla volontà, il diritto non ha senso; e che
tra il pesce grosso che si mangia il pesce piccolo e l’uomo
forte che sottomette a sè il debole c’ è di mezzo quell'auto¬
coscienza, in cui è la libertà, e quindi la legge, e il diritto.
Contro lo Spinoza ha ragione il Rousseau e ogni ri-
vendicatore dell’ idealità del diritto, di osservare che « la
forza è una potenza fisica, dagli effetti della quale non può
risultare nessuna moralità. Cedere alla forza è un atto
di necessità, non di volontà; è tutt’al più un atto di pru¬
denza. In che senso potrà essere un dovere ? » *. La forza,
però, trasportata dalla natura (in cui è una nostra costru¬
zione) in noi, dov’essa effettivamente agisce, non è più, come
si è chiarito, una mera necessità meccanica, ma è pro¬
prio la legge, in tutta la maestà del suo intangibile valore.
2. — Doppio significalo della forza secondo che si considera
a parte subiecti o a parte obiecti
ed equivoco proprio delle polemiche contro le dottrine
che derivano il diritto dalla forza.
La forza bensì ha due significati diversi, secondo che
la legge si considera dall’esterno o dall’ interno. La forza
di cui parla lo Spinoza, è evidentemente la forza veduta
cogli occhi dell’operante, a parte subiecti ; laddove la forza,
est, ut unaquaeque res in suo statu, quantum in se est, conatur
perseverare, idque nulla alterius, sed tantum sui habita ratione;
bine sequitur, unumquodque individuum ius summum ad hoc
habere, hoc est (uti dixi) ad existendum et operandum prout
naturaliter determinatum est. Nec hic ullam agnoscimus diffe-
rentiam inter homines et reliqua naturae individua; neque inter
homines ratione praeditos et inter alios qui veram rationem
ignorant; neque inter fatuos, delirantes et sanos. Quidquid enim
unaquaeque res ex legibus suae naturae agit, id summo iure
agit, nimirum quia agit prout ex natura determinata est, nec
aliud potest »: Tract. theol.-pol., c. XVI.
1 Contr. Soc., I, 3.
CI rnttt/r, I fondamenti della filosofìa del diruto.
6
82 I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
contro cui protesta il Rousseau, è la forza a parte obiecti,
ossia del soggetto che la patisce. E la differenza è tale e
tanta, che la prima è, ben si può dire, la radicale negazione
della seconda, quantunque comunemente si creda che in
ambo i casi si tratti della identica forza. La forza di chi
agisce è l’affermazipne, la realizzazione dello spirito;
laddove quella di chi patisce (quella che sente chi la
patisce) è la negazione o soppressione della realtà spiri¬
tuale. L’una bensì genera l’altra, ma ponendo due situa¬
zioni spirituali differentissime, delle quali l’una è attua¬
zione del valore e l'altra, invece, del disvalore spirituale.
Ora quando Spinoza attribuisce a ciascun individuo (noi
i diremmo, allo spirito) il ius summum ad omnia quae po¬
teri, egli pensa alla forza nel primo senso, che è infatti
creatrice del valore; Rousseau invece, negando che la
forza possa generare un valore, è chiaro che ha la mente
alla forza nel secondo significato.
In conclusione, hanno ragione l’uno e l’altro; e tutte
le dispute, che dal tempo di Platone si fanno intorno
a questo punto, sono sofìstiche per la mancanza di tale
distinzione; senza la quale è impossibile aver ragione
di dottrine naturalistiche come quelle enunciate nell’an¬
tichità dai sofisti che Platone ci rappresenta in Callide
e in Trasimaco. 1 quali sono nel vero finché parlano
del diritto che è forza e della forza che è diritto,
ma han torto di fronte a Socrate, rivendicatore dell’ idea¬
lità del valore, perchè non hanno nessuna coscienza dello
svolgimento che è proprio di cotesta forza. La quale non
è perciò una forza naturale, determinata obbiettiva¬
mente e senza intrinseca razionalità, ma è libera forza
spirituale, la quale può realizzarsi solo attraverso una
legge universale, e negando costantemente ogni partico¬
larità. Hegel 1 2 e Jhering J , dopo Vico, hanno dimostrato
1 Phaenomenologie, Berlin 1832, pp. 140-50.
2 Der Zweck im Rechi (trad. frane.), § 166.
l' interno e l’ esterno della legge
83
apertamente come la schiavitù — istituto tipico del di¬
ritto del più forte — sia la culla della libertà : quale può
apparire soltanto se si scorge la dialettica interna del
volere che come forza non può realizzarsi se non vincendo
la propria negatività e ponendosi come universalità.
3. — L’esempio del Rousseau.
Lo stesso Rousseau, che non crede possa nascere diritto
dalla forza, è l’autore di quella dottrina pedagogica che
dalla prima educazione esclude ogni ragionamento e ogni
discussione intorno al dovere e raccomanda: Employez
la force avec les enfants, et la raison avec les hommes; tei
est l'ordre naturel: le suge ria pas bcsoin de lois l . Traitez
votre éleve selon son àge. Mettez-le d’abord à sa place, et
tenez-V y si bien, qu’ il ne tenie plus d’en sortir. Alors,
avant de savoir ce que c'est que sagesse, il en pratiquera la
plus importante legon *. E questa forza è anche per lui
emancipatrice dell’uomo, finché l’uomo non la ritrovi in
se stesso.
4. — Spiritualità e intimità
della forza creatrice del diritto.
Questo è il punto a cui bisogna guardare. La forza che
È diritto è la forza interiore, l’attività o potenza dello spi¬
rito, nella sua intimità. Nell’educazione questa forza agisce
' Che è ciò che dicevano gli Stoici, e la base della costruzione
del diritto fatta dal Tomasio, e diventata quindi tradizionale:
« At sapiens obligationem internarti habet prò nobilissima specie,
quia timet malum necessarium. Unde et obligatio sapientis magis
interna est, quam externa»; e però: « Stulti magis imperio, sa
pientes, id est, etiam ii qui sapere incipiunt, magis consilio re
guntur»: Fund. iuris naturae et gentium, 1705 (4“ ed. 1718), lib.
I. c. IV, §§ 54-5.
1 Émile, lib. II, Paris, Didot, 1808. I, 120.
84 I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
•come potenza esterna; ma la stessa educazione veramente
quando si ha l’esteriorità si risolve e il maestro, come
già voleva S. Agostino, ’ diventa interno allo spirito del¬
l’educando, 1 in guisa che la forza dell’uno sia la foiza
propria del secondo.
L’educazione, infatti, speculativamente intesa, non è
l’azione spirituale dell’adulto sul fanciullo, la quale
cessa col sopraggiungere della maggiore età di questo:
educazione è ogni azione spirituale che. l’uomo eser¬
citi sull’uomo, e si stende per tutta la vita, e si com¬
plica per tutte le specie di rapporti onde l’uomo è legato
i Sono da meditare queste mirabili osservazioni di Agostino,
die paiono scritte da un filosofo dei nostri giorni: «De universi
autem quae intelligimus, non loquentem qui personat foris, sed
intus ipsi menti praesidentem consulimus veritatem, verbis foi -
tasse ut consulamus admoniti. file autem qui consuhtur, docet,
qui in interiore homine habitare dictus est, Christus, id est, in-
commutabilis Dei Virtus atque Sempiterna Sapientia.... Qua-
mobrem in iis etiam quae mente cernuntur, frustra cementis
loquelas audit quisquis ea cernere non potest....; quisquis autem
cernere potest, intus est discipulus veritatis, foris iudex loquentis,
vel potius ipsius locutionis: nam plerumque scit illa quae dieta
sunt eo ipso nesciente qui dixit.... Sed ecce iam remato, et con¬
cedo, cum verba eius auditu cui nota sunt, accepta fuerint, posse
illi esse notuin de iis rebus, quas significane loquentem cogita-
visse- num ideo etiam, quod nunc quaeritur, utrum vera dixerit,
discit ? Num hoc magistri profitentur, ut cogitata eorum, ac non
ipsae disciplinae quas loquendo se tradere putant, percipiantur
atque teneantur ? Nam quis tam stulte curiosus est, qui filium
suum mittat in scholam, ut quid magister cogitet discat ? Al
istas oranes disciplinas quas se ducere profitentur, ipsiusque
virtutis atque sapientiae, cum verbis explicavent, tum fili qui
dì ^ripulì vocantur, utrum vera dieta sint, apud semetipsos con-
siderant, interiorem scil. illam veritatem prò viribus mtuentem.
-punc ergo discunt: et cum vera dieta esse intus invenerint, lau¬
dani nescientes non se doctores potius laudare quain doctos »:
De magistro, §§ 38, 4 1 . 45 (m Opera, ed. dei Maunm, 1700, t. I,
coll. 415-6).
« Cfr. Gentile, Sommario di pedagogia P, 127 sgg. e passim.
l’ interno e l'esterno della legge 85
coll’uomo : non solo l’inferiore al superiore, ma anche il
superiore all’ inferiore. E in tutta la vasta rete d’inter¬
dipendenze spirituali la vita dello spirito importa l’appro¬
priazione e interiorizzazione delle forze esterne, che, a
rigore, in quanto esterne, non valgono per lo spirito, ossia
non agiscono, non esistono come forze.
5. — L’aspetto esterno e l’aspetto interno della legge.
L'azione dunque della forza spirituale è interna se è
nostra (a parte subiecti), esterna se altrui (a parte obiecti).
La legittimità della prima (e conseguente illegittimità
della seconda) sta appunto in ciò, che essa reca in sè l’at¬
tualità del soggetto, e quindi è celebrazione di libertà, di
vera e propria attività spirituale — nella cui realtà con¬
siste il supremo valore; laddove l’altra, in quanto esterna,
si presenta bensì nell’ interno della coscienza, al soggetto,
ma, come estranea ad esso, e opposta alla sua realizza¬
zione: è momento negativo, che il soggetto deve superare
per realizzarsi. E per le cose dette innanzi, è evidente che
l’attività spirituale, la legge del volere ha in ogni momento
del suo processo queste due facce: l’esterna e l’interna.
6 . — Interiorità della /orza coattiva dello spirito.
Ma la vera esteriorità, a cui bisogna guardare sempre
per intendere ogni forma derivata e indiretta di essa, è
questa interna negatività del volere, fuori del quale è
impossibile imbattersi in nulla che abbia un qualunque
valore, positivo o negativo, per lo spirito. La coazione del
diritto in senso stretto, che è da intendere, com’ è chiaro,
per forza esterna, è esterna prima di tutto in questo
senso spirituale e, diciamo pure, interiore *.
1 Cfr. Giuseppe Maggiore, Il diritto nel suo processo ideale,
Palermo, Fiorenza, 1916, p. 130.
86 I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
Per vim colendi, diceva il Tomasio che ne fece il ca¬
rattere distintivo del diritto ’, hic intelligitur stride pote-
stas insipienti inferendi dolorem sensibilem dependentem
ab arbitrio inferentis. Dove è evidente che la forza della
coazione, esercitata fisicamente o no, sarà nel dolore,
che è stato interno al soggetto: ed è quel modo di essere
che si oppone nella coscienza del soggetto all’attuazione
della realtà del soggetto stesso: giacché soffre chi non
agisce e non attua se stesso 1 .
« Fund. iur., lib. I, c. IV, § 57.
3 Intorno al dolore cfr. Sommario 15 , 34-39.
VI.
LA MORALE E IL DIRITTO
I. — Eticità positiva dell'atto concreto del volere.
La concreta attuazione del volere non è dunque se non
pura attività morale, buona volontà, bene. Ma nella dia¬
lettica di questo atto, onde s’instaura in eterno il bene,
sono da distinguere momenti diversi; perchè non tutto
ciò che non è bene, è male.
2. — Posizione del volere come volere e come voluto.
Volere è volere qualche cosa, un oggetto. Quest’og¬
getto, come abbiamo visto, è lo stesso volere, sempre,
poiché, qualunque oggetto si voglia, non si vuole se non
un modo di essere del volere, che, ogni volta, è l’unico
modo in cui il volere possa essere, se è. Il volere dunque
è nell’atto suo unità di questi due termini: volere come
volere e volere come voluto. Diciamo pure brevemente:
volere e voluto (badando però al significato del voluto).
3. — Il voluto come legge del volere.
Il voluto è la legge del volere; ma questa legge ha due
significati diversi, secondo che si assume anch’essa dal-
1 ’ interno o dall’esterno. Giacché la legge, nell’atto in cui
si realizza col suo valore, è interna al volere, come un suo
momento: ma noi possiamo pure staccarla dal volere, e
88
1 FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
considerarla in se stessa, come ciò che si vuole astratta-
mente, ma non si realizza attualmente. Se lo spirito non
facesse nella sua stessa reale dialettica quest’analisi di
volere e voluto, la distinzione, come pura distinzione
logica, non sorgerebbe mai. Ma l’analisi ha luogo nello
stesso svolgimento della vita dello spirito; il quale non
può volere restando chiuso in un voluto. Allora infatti
cesserebbe di volere, e il dinamismo della sua dialettica
si arresterebbe subito e precipiterebbe in una sostanza
affatto naturale. L’essere la volontà creazione di se stessa,
importa adunque sì volere il voluto, ma staccarsi anche
da questo, e trattarlo quindi come un semplice voluto.
4. — Il volere già voluto
e il distacco del volere dal voluto.
Il distaccarsi del voluto dal volere, trasforma eviden¬
temente l’attuale voluto nel già voluto, senza sottrarlo
perciò alla dialettica del volere. Se il voluto vi si sot¬
traesse, è chiaro che cadrebbe nel nulla, poiché l’essere è
della dialettica spirituale; e uscire realmente dal circolo
di questa dialettica non può essere se non annientamento.
Ma il voluto non si annienta; e non si annienta, perchè
esso stesso è spirito, ancorché in forma negativa. Esso
non è annullato, ma semplicemente negato; e perciò
conservato nella sua negatività. Io voglio a ; e sono a;
ma se non volessi altro, io non vorrei più ; nè quindi sarei
più a, poiché a sono volendolo essere. Quindi voler già a,
importa volere a’, a”, a” ecc.; e volere a' significa non
volere più a (che sarebbe non volere a') ; nè, per volere a",
posso più volere a\ e così via. Insomma, il volere qualcosa
importa quindi disvolerlo, volendo un oggetto che con¬
tiene il primo voluto ma in una forma superiore, in cui
esso venga sempre più realizzando se stesso, dialettica-
mente.
LA MORALE E IL DIRITTO
8<J
5. — Il già voluto come limile della libertà.
Il voluto, come volere già voluto, non è più volere,
ma contenuto di volere: non è più legge, ma contenuto
di legge; non è più libertà che è forza, ma forza senza
libertà; non è più oggetto che è soggetto, ma oggetto
opposto al soggetto.
Spieghiamoci. Il voluto, come volere già voluto, non
è più volere, ma contenuto di volere. Volendo a’, que¬
sto a', che presuppone a, non è contenuto del mio volere,
ma il mio volere stesso, nella cui attualità abbiamo av¬
vertito (III, 12) non essere il voluto altro dal volere
(essere cioè il contenuto risoluto nella forma o attività
di cui è contenuto) ; talché l’atto spirituale non ha niente
innanzi a sè che sia estraneo a lui, ed è in presenza, perciò,
di se medesimo. Esso ha un contenuto innanzi a sè in
quanto distingue da sè il voluto, come distingue a, vo-
..lendo a , di cui a è contenuto (essendo quindi contenuto
del volere, con cui a coincide). Analogamente deve dirsi,
che il volere già voluto non è più legge (atto dello spirito
nel suo valore) ma contenuto di essa ; legge in senso affatto
obbiettivo. Hobbes perciò diceva: multum interest inter
legem et ius; lex enim vinculurn, ius libertas est, differuntque
ut contraria '. Infatti la legge a quando si vuole a’, non
è più libertà, poiché non è l’atto, ma, a considerarla a sè,
fuori di a', si impone al volere come condizione necessaria
di a") necessaria, perchè immutabile; immutabile, perchè
già voluta, e presupposta quindi dall’atto spirituale nella
sua libertà. E quindi è forza che già era libertà, e ora è
limite della libertà; e si oppone al soggetto, che si trova
innanzi se stesso ma in una forma da non potervisi più
riconoscere.
1 De cive, c. XIV, § 3.
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
«99
6 . — Il già voluto come diritto in senso stretto,
sussistente nel volere attuale, che è morale.
Questo voluto, come volere già voluto, è il diritto in
senso stretto, che si può dire una volontà già realizzata,
diversa dalla morale in ciò, che questa è volontà che si
realizza. Ma si errerebbe a credere il diritto posteriore
alla morale, benché non ci sia dubbio che determinate
forme giuridiche succedano a determinate forme etichè.
Guardando bensì i due termini nella loro posizione pura¬
mente ideale, la morale abbiamo detto essere la con¬
cretezza, e perciò il culmine dell’atto spirituale, dove si
moralizza, cioè effettivamente si attua ogni altro momento
dello spirito. Giacché il già voluto, si badi bene, non è
effettivamente condizione del volere; non è, voglio dire,
un suo cronologico antecedente; perchè è il volere che fa
il voluto «già voluto >: e questo perciò intanto è, in quanto
c’ è il volere che lo contrappone a sé, e lo nega nella sua
particolarità, che è la sua obbiettività astratta. Perciò
abbiam detto che il già voluto è contenuto del volere:
contenuto inconcepibile fuori del volere stesso nella
sua attualità. Il passato è contenuto del presente, cioè
del presente atto spirituale ', che è il volere; fuori del
quale pertanto non è dato incontrare, nè consentito cer¬
care il già voluto. Come momento interno all’atto del
volere (morale), il diritto rientra nella dialettica di questo,
non come l’elemento negativo, anzi come l’elemento posi¬
tivo, ma astrattamente positivo, del volere stesso.
7. — Il diritto come astratto universale
opposto all’astratta particolarità del soggetto.
La dialettica dell’atto spirituale, adunque, non importa
soltanto il non essere dello spirito (il male), ma anche
1 Cfr. Teoria generale dello spirito, p. ili.
LA MORALE E IL DIRITTO
91
questo essere, senza di cui non sarebbe possibile questa
posizione di sè, in cui l’atto spirituale consiste. La volontà
che non fosse volontà, non si potrebbe realizzare come
tale; ma non si potrebbe realizzare neppure una volontà
che fosse già volontà. Sicché l’opposto della volontà che
è in quanto diviene, è duplice: volontà che non è, e volontà
che è; e la volontà attuale non nega soltanto quella che
non è, ma anche quella che è. Nega la prima essendo la
seconda, e. nega la seconda essendo la prima: giacché
essere davvero volontà (divenire volontà, volere attual¬
mente) questo appunto significa: essere non essendo, e non
essere essendo volontà. Sicché nell’ interno del volere, che
li unifica e risolve in sè come realtà concreta, in cui vivano
gli elementi separabili solo in astratto, c’ è posto sì pel
male, che è non essere della volontà (particolarità), e sì
pel diritto che è essere della volontà (universalità); e il
volere è morale, cioè vita attuale dello spirito, in quanto
particolarizza l’universale e universalizza il particolare.
Due processi che sono l’unico processo della individualità
dell’autocoscienza.
8 . — Intimità della legge
come diritto alla libera volontà morale.
Questo « essere » della volontà, la volontà non aspetta
un comando del potere sovrano per trovarselo innanzi.
Il « già voluto » è il contenuto eternamente presente del
volere, in tutta la sua ferrea necessità (comandi esso, o
vieti). Il potere sovrano, come abbiamo già visto, egli
lo ha in sè ; e fuori di sè, dove empiricamente gli si rappre¬
senta armato di spada, non può vederlo se non attraverso
di quello che ha già nel suo intimo, dov’è la radice e la
vera sostanza della società e dello Stato. Esso è la legge,
in quanto legge che la volontà bensì risolve nella sua li¬
bertà, ma che non potrebbe risolvere se essa non fosse
92
T FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
legge. Dura lex, sed lex. Dura, perchè presa in se stessa,
astrattamente, è fissa, rigida; è quella che è. La vediamo
infatti in quanto l’abbiamo voluta, ed è il nostro stesso
essere realizzato: factum quod infectum fieri nequit. Non
vi riconosciamo la nostra attività, che è libera, l’opposto
di quella necessità; e l’attribuiamo ad un’altra volontà
(divina, o umana, ma più forte della nostra). La quale
poi, a pensarci, non può non essere contenuto della vo¬
lontà nostra, volente cioè e potente in quanto noi la
riconosciamo, e consentiamo, e perciò pure vogliamo
che voglia.
9. — Diritto oggettivo e diritto soggettivo.
Distinguesi giustamente in via empirica il diritto sog¬
gettivo ( facultas agendi) dal diritto oggettivo, che è quello
che propriamente noi abbiamo dedotto dalla dialettica
del volere ( norma agendi). Ma il diritto soggettivo è un
diritto derivato, che ha nell’obbiettivo la sua ragion
d’essere e la sua essenza; giacché questo, nella sua obbiet¬
tività, conferisce al soggetto una certa forza verso di un
altro, corrispondente all’obbligazione rispettiva di questo
verso il primo. Il diritto del mio credito esiste, in quanto
c' è un diritto obbiettivo che obbliga il debitore verso
di me; e la mia volontà attiva trae tutto il suo valore
giuridico dalla legge che garantisce il mio credito; e cioè,
speculativamente parlando, in quanto la mia volontà non
è una volontà mia, arbitraria e particolare, ma la stessa
forza del diritto oggettivo. Nell'unità spirituale che unisce
creditore e debitore, come ogni individuo è legato a se
stesso in quella unità che appunto nell’ individuo si coglie
più direttamente, il diritto soggettivo non si differenzia
dall'oggettivo, ma coincide con esso interamente.
Di che una riprova empirica è nel fatto che il diritto
soggettivo sussiste, anche quando il soggetto cui compete
LA MORALE E IL DIRITTO
93
non ne abbia coscienza e non lo faccia valere ». Tant’ è
vero che l’essenziale del diritto soggettivo consiste in
quello oggettivo.
io. — La coattività del diritto.
In questo « essere » della volontà, che non è la volontà
stessa nella sua libertà, ma è bene la volontà nella sua
legge, è dato di scorgere il senso profondo del carattere,
dal Tomasio in poi, attribuito in proprio al diritto, della
coattività, dal quale non distinguerei quello dell'esterio-
rità 1 2 3 ; diverso aspetto d’un medesimo rapporto del di¬
ritto alla volontà. La discussione avvenuta intorno a
questo carattere essenziale del diritto trae origine da
equivoci, resi possibile dalla superficialità delle determi¬
nazioni che sono state date del concetto di coazione giu¬
ridica. La obbiezione p. e. del Riimelin 3 e d’altri, che alla
costrizione si sottrae nel campo del diritto lo stesso po¬
tere che la esercita, è una obbiezione che nasce dalla con¬
siderazione empirica ed affatto esteriore del diritto. 11
quale, considerato speculativamente, non ha un potere
coattivo nè un soggetto a cui la coazione si rivolga: lo
Stato da una parte realizzato come sovranità, e dall’altro
come popolo. Rousseau ha già superato questo modo
affatto fantastico di rappresentarsi i due termini delio
Stato, e noi sappiamo che come il maestro, pedagogi¬
camente parlando, così, in politica, il vero sovrano non
è fuori ed opposto, ma dentro dell’uomo, ed è lui stesso.
Ora la coazione non importa già esteriorità del potere
costrittivo, anzi interiorità e reale presenza (immanente
1 G. Del Vecchio, Il concetto del diritto, Bologna, 1912, p. 108.
1 L’esteriorità infatti è senz’altro da escludere in quanto si
toglie nel suo significato puramente fisico. E non rimane quindi
altro che la coercibilità.
3 Rcdcn tt. An/sàtze, N. F., Freiburg i. B., 1881, p. 337.
94
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
alla coscienza del soggetto) del potere stesso. Ed è quindi
ovvio che cotesto a sua volta non sia coercibile; com’ è
pure ovvio che ciò non vuol dire intanto che la coerci¬
bilità non si adegui a tutta la sfera del diritto: poiché il
diritto non trascende il rapporto del volere come voluto
col volere come volere (del sovrano col suddito) ; e il volere
come voluto è tale soltanto rispetto al volere come vo¬
lere, e non in se stesso, fuori di tal rapporto. 1
il. — Coazione e sanzione.
La coazione, non consiste nella sanzione di fatto, da
cui è accompagnata la legge, e che nella lex perfecta di
Ulpiano annulla ( rescinda ) l’atto compiuto contro la sua
disposizione. Potrà questa sanzione anche mancare, come
nel caso delle leges imperfectae (forma, molto probabil¬
mente, iniziale e non ancora pienamente sviluppata di
ius privatum) J ; ma il diritto c’è in quanto il soggetto
» Cosi la consuetudine non acquista valore giuridico senza
l 'opimo iuris che conferisce al fatto il carattere normativo; e
Vopinio iuris è volere, con cui il voluto ha un rapporto imma¬
nente; e perciò bene si rileva che nella consuetudine per se stessa
non c’ è diritto, ma soltanto una fonte a cui il diritto attinge :
cfr. M. Weigmann, Sulla consuetudine come fonte di diritto, nel
Filangieri, sett.-ott. 1915.
j G. Baviera, Scritti giuridici, Palermo 1909, pp. 201-24.
Cfr. del resto la nota dei tradd. ital. Fadda e Bensa al Dir. d.
pandette del Windsciieid, voi. I, part. i a , p. 54 °- 45 . dove si
contesta che le leges imperfectae siano sfornite affatto d’ogni
sanzione. Quanto alle obbligazioni naturali già molti anni fa lo
stesso Padda provò ( Arch. giurid. XXXVI, 1886, pp. 195 ‘ 2 37 )
esserci per esse una protezione che può manifestarsi anche con
mezzi di offesa. Delle norme giuridiche non coattive, di cui qualche
esempio si ha pure nella nostra legislazione, è stato osservato
che esse « producono effetti mediati, che possono essere di somma
importanza quando (una tale norma) renda necessaria 1’ inter -
pretatio abrogans di un’altra disposizione contenuta nello stesso
sistema di diritto»; A. C. Jemolo, in Riv. di dir. pubbl., 1913
part. i a , p. .258. Cfr. Maggiore, 0. c. pp. 113-4.
LA MORALE E IL DIRITTO
95
trovasi innanzi a un voluto, che non è il suo attuale volere
ed è pur contenuto di questo. Il diritto potrà in seguito
provarsi non coattivo; e, ci sia o non ci sia la sanzione,
il fine proprio di questa, che è l’annullamento della vo¬
lontà violatrice del diritto, potrà fallire al suo scopo;
ma il diritto per noi è diritto in quanto noi lo sentiamo
coattivo: legge della nostra volontà, senza che sia la no¬
stra stessa volontà.
12. — Le garanzìe del diritto.
La questione delle garanzie del diritto è secondaria
e accessoria rispetto alla natura del diritto. Il quale tende
bensì a garentirsi, a farsi valere, a creare gli organi che
lo proteggano. Lo spirito, cioè, è portato dalla sua stessa
universalità a rendere sempre più efficace e potente verso
la libertà particolare la disposizione giuridica, che è la
forma universale della sua attività. Ma questa tendenza
stessa è fondata sulla essenza originaria e veramente
assoluta del diritto, che è la necessità di cui esso si pre¬
senta investito di fronte al soggetto.
ij. — Critica della distinzione giusnaturalistica
dell’attività interna e dell’attività esterna della persona.
E con questa tutta interna e spirituale coattività coin¬
cide, dicevo, il carattere della esteriorità delle norme giu¬
ridiche, messo in tanto rilievo dalle polemiche dei giusna-
turalisti per la rivendicazione della libertà di coscienza dal
potere politico. Ma è chiaro che gli argomenti filosofici
del giusnaturalismo in favore della loro famosa distin¬
zione dell’interno dall’esterno della persona che è citta¬
dino dello Stato, sono del tutto privi di fondamento; 1 e
1 Quello che vale certamente di più è l'argomento di Spinoza,
Traci, theol.-pol., c. 20: « Si aeque facile esset animis ac linguis im
96 I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
noi abbiamo chiarito che la realtà dello Stato non è inter
homines, ma in homine interiore ; sicché non c’ è modo di
valutare un’azione che non venga considerata come in¬
terna. Lo Stato che adotti un regime di tolleranza reli¬
giosa, non è lo Stato che si dichiara incompetente in
materia di fede, bensì lo Stato che si disinteressa delle
forme positive della religione stimandole indifferenti ri¬
spetto allo svolgimento di quella realtà spirituale, che
esso realizza: potendo perciò essere uno stato ateo, o
deista, o immanentista, e così via: e però affermando
sempre una sua teologia.
Intanto, un concetto oscuro del carattere realmente dif-
pevare, tuto unusquisque ex imperantium ingenio viveret, et ex solo
eorum decreto, quid veruna vel falsum, bonum vel malum, aequum
vel iniquum esset, iudicaret. Sed hoc, ut iam in initio cap. 17 no-
tavimus, fieri nequit, ut scil. animus alterius iuris absolute sit;
quippe nemo ius suum naturale, sive facultatem suam libere
ratiocinandi, et de rebus quibuscunque iudicandi, in alium trans-
terre, ncque ad id cogi potest. I-Iinc ergo fit, ut illud imperium
violentum habeatur, quod in animos est, et ut surnma maiestas
inumani subditis tacere, eorumque ius usurpare videatur, quando
unicuique praescribere vult, quid tanquam verum amplecti et
tanquam falsum reicere, et quibus porro opinionibus uniuscuius-
que animus erga Deum devotione moveri debeat; haec enim
uniuscuiusque iuris sunt, quo nemo, ctsi velit, cedere potest ».
Ma questo argomento evidentemente cade innanzi alla dottrina
agostiniana, di cui si facevano forti gli avversari della tolleranza
religiosa: « Melius est quidem (quis dubitaverit ?) ad Deum co-
lendum doctrina homines duci, quam poenae timore vel dolore
compelli. Sed non quia isti meliores sunt, ideo illi qui tales non
sunt, negligendi sunt. Multis enim profuit (quod experimentis
probavimus et probamus) prius timore vel dolore cogi, ut postea
possent doceri, aut quod iam verbis didicerant, opere sectari.
Proponunt nobis quidam sententiam cuiusdam saecularis aucto-
ris (Terent. Adeph., 74), qui dixit «pudore et liberalitate liberos
retinere, satius esse credo, quam metu ». Hoc quidem verum est,
sed sicut meliores sunt quos dirigit amor, ita plures sunt quos
corrigit timor » : S. Agostino, De correct. Donatist. (Epist. 185).
§ 21: ed. cit., II, col. 496.
LA MORALE E IL DIRITTO
97
ferenziale del diritto c’ è pure nella mente dei giusnatura-
listi neganti al diritto ogni competenza nella sfera interna
dello spirito.
Essi intravvedono nel diritto l’opposizione propria del
volere voluto al soggetto, alla libera spontaneità dell’ Io,
che rimane sempre di fronte alla sua norma, a sentirla,
quando se la rappresenta, a crearla quando essa nasce,
a criticarla e corroderla quando essa c’ è già, reagendo su
di essa, e trascinandola seco nello svolgimento della vita
dello spirito, che è la storia. Opposizione, che, come
ognun vede, non è cosa diversa dalla coattività della
norma giuridica.
14. — Gli organismi giuridici nel processo storico.
Nella storia, dove tutta la vita spirituale si attua, il
diritto si libra tra la morale da cui sorge e la morale a
cui mette capo: e ogni momento della storia, così nell’ in¬
dividuo come nell’ insieme degli uomini, che sono tutti
un individuo, è un momento di moralità che risolve una
situazione giuridica per farne nascere una nuova. Ogni
organismo di rapporti giuridici è come un sistema della
natura, che l’attività dello spirito ha creato, e che nel¬
l’attività dell’ Io tornerà a riassorbirsi, come elemento
d’un ulteriore ampliamento e potenziamento del regno
dello spirito. E il diritto ben può dirsi la natura nel mondo
della volontà.
15 • — Esempio: il diritto di proprietà.
Esempio tipico, il diritto di proprietà. Che cosa è
« mio ? » Mio è 1’ Io, il mio spirito : un sentimento, che io
sento; una sensazione che io provo; un pensiero che io
penso, un poema che io compongo; un’opera che io com¬
pio; il suolo che è suolo occupabile ed io occupo; o suolo
Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto.
7
9 S
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
coltivabile, e io lo coltivo; e tutto insomma che è prodotto
del mio fare, e in cui s’incorpora quasi il mio Io.
S’incorpora, o si è incorporato ?
Nell’atto dell’ incorporarsi c’ è l’atto spirituale concreto,
che non può essere se non morale, e non conosce diritto.
Ma, incorporato che sia, quando l’atto è compiuto, e
s’ è fatto contenuto di un nuovo atto, non essendo esso
più atto, ecco che il mio viene affermato come «mio»;
sorge il diritto. Sorge come presupposto di ogni atto
che io rivolga all’oggetto stesso, cioè al mio essere che vi
si è incorporato. Sorge, cioè, ogni volta che io compia
questo nuovo atto, che sarà morale come il primo, ma
conterrà quel diritto, che si rinnoverà esso stesso di con¬
tinuo in virtù dell’atto sempre nuovo di cui sarà contenuto.
La proprietà, in se stessa appresa (per astrazione), è cosa,
natura; nel processo a cui appartiene, è la volontà. In
quanto quella natura è presupposto di questa volontà, è
diritto; e in quanto questa volontà presuppone quella
natura, è morale.
16. —- Legge giuridica e legge morale
nelle loro differenze, e nella loro identità.
Infine tuttavia potrà dirsi; oltre la legge obbiettiva
del diritto, c’ è la legge non meno obbiettiva della morale ;
e il carattere imperativo è proprio piuttosto della legge
morale, secondo che fu giustamente notato dal Kant.
In che dunque consiste la differenza del diritto dalla
morale ?
Chi ha seguito attentamente tutto il processo della
nostra deduzione, deve già vedere il significato dell’as¬
serzione da noi fatta in principio, del valore mera¬
mente gnoseologico della categoria giuridica, in quanto
essa si distingue dalla categoria etica. La legge, nella sua
attuale realtà, è, e non può non essere morale; ma nel¬
l’atto, per cui la legge è realmente legge, e in cui perciò
LA MORALE E IL DIRITTO
99
deve dirsi che consista la sua realtà, essa non è soltanto
legge : cioè, non è più soltanto quella legge, con cui da noi
si agguaglia il diritto. Essa infatti si attua mediante la
volontà attuale, che c libertà. Quella libertà, che, consi¬
derata, a sua volta, astrattamente e perciò rispetto a
una legge pure astratta, ci apparisce l’opposto della legge ;
e che infatti è la concretezza dell’autocoscienza, l'energia
onde 1 ’ Io si pone.
La legge nella sua opposizione alla libertà (il volere,
abbiamo detto, voluto), questa astratta posizione del voluto
di fronte al volere — quale apertamente si manifesta
quando il voluto si consideri come già voluto; — questa
posizione gnoseologica, destinata a risolversi nella con¬
cretezza dell’atto volitivo etico, differenzia il diritto dalla
morale.
Consiste nell’astrattezza di posizione della legge come
diritto quella esteriorità che ogmm vede nel diritto come
norma della volontà nei rapporti interindividuali ; giacché
l'opposizione della legge alla libertà, che è immanente,
per quanto risoluta, in ogni atto di volontà, si manifesta
più facilmente nella sua astrattezza quando un’autoco¬
scienza, inizialmente, si contrapponga a un’altra autoco¬
scienza. Allora infatti sembra che l’astratta opposizione
diventi una reale ed effettiva repugnanza; laddove anche
in tal caso la realtà concreta è morale, e l’opposizione
giuridica è astratta. Finché io comando a me stesso,
non pare ci sia vero e proprio imperium, nè quindi che si
possa parlare di lex, la quale limiti e vincoli il soggetto.
Ma quando due volontà entrino in conflitto, e una voglia
(e come potrebbe non volere, magari secondo la dottrina
della non resistenza al male ?) prevalere sull’altra, allora
la legge che entra in vigore, dettata da una della due vo¬
lontà, ossia appunto quest’una volontà prevalente, non
pare più che si possa riguardare se non come realmente
opposta alla realtà del soggetto a cui s’ impone. E invero
l’opposizione della legge qui si fa più manifesta dal ri-
TOO
I FONDAMENTI DELTA FILOSOFIA DEL DIRITTO
spetto empirico, poiché in questo caso è dato distinguere
empiricamente la volontà che è legge dalla volontà che
è libertà. Se non che anche in questo caso l’opposizione
è astratta; e si presenta come opposizione allo spirito,
che come tale la pensa nell’atto stesso con cui la nega;
giacché come potrebbe la volontà forte prevalere, se
l’altra non s’inducesse a piegarvisi, e quindi a fare della
volontà opposta od esteriore la sua propria legge, cioè
se stessa ?
xy. — Il motivo delle valutazione morali
cui è sottoposto il diritto.
Questa intrinseca medesimezza di diritto e morale nella
concreta vita dello spirito ci spiega, dicevo, tutto il di¬
namismo del diritto nella storia; e ci spiega pure il motivo
profondo delle valutazioni morali, a cui si toma sempre
a sottoporre tutti gli atti giuridici, malgrado le insistenti
avvertenze circa la netta separazione del dominio etico
dal giuridico. Il diritto esiste come diritto, ma non nasce
come diritto. La legge — fonte tipica del diritto stesso
è, alla sua origine, un atto etico, in quanto non può avere
se non quel fine immanente, che come avvertimmo, è
unum et idem con 1 atto spirituale (la cui attuazione,
converrà ancora ripeterlo, è l’essenza della più pura atti¬
vità etica).
Nè si distingua i mezzi dal fine; distinzione che non
può essere altro che analisi postuma dell unità dell atto
spirituale ». La forma, la natura dell’atto è determinata
1 Ogni atto giuridico ha di certo un contenuto economico,
ma questo contenuto parmi sia la materia che 1 atto giuridico
investe come mezzo che adopera al raggiungimento del proprio fine.
11 quale, come fine, ossia termine spirituale dell Io, non può
essere altro che 1* Io, cioè la realtà morale. Un’azione è utile in
quanto serve a uno scopo; ma nessuna azione concreta e attuale
serve a uno scopo. Dicesi « servire » un’azione che si consideri in
LA MORALE E IL DIRITTO
IOI
dal fine, in cui il mezzo si risolve ed assorbe. Etica l’azione
legislativa, etica è pure ogni azione che presuppone la
legge, e che in ragione di tal presupposto si dice giuridica :
violazione od osservanza del diritto, esperimento giudi¬
ziario, sentenza ecc. Il Sfxouov è diritto, ma non è diritto
quell’ s[xaln))rov Sixociov che, secondo Aristotele, vuol es¬
sere il Sixacrtyj; (s’intende, nell’esercizio delle sue fun¬
zioni) . Il quale dev’essere, come sempre, un uomo di buona
volontà, in ragione appunto della sua devozione alla legge
che interpreta e fa valere nel caso particolare, e non di
quella pretesa sua libera creatività del diritto, che gli si
è voluta di recente attribuire a sproposito.
La legge trova sempre innanzi a sè la volontà pronta
a giudicarla moralmente, e quindi a temperarla, se è
da lei, con l’equità, o a modificarla e riformarla. Nè la
coscienza morale potrebbe mai contrapporsi alla disposi¬
zione della legge e agire su questa, come fa di continuo
nel suo svolgimento, se alla legge che venga a contatto
con la volontà in quel rapporto spirituale, in cui solo è
possibile che attinga la sua realtà, non fosse propria
l’eticità che la coscienza morale ha l’ufficio di valutare.
18. — La legge ingiusta.
Nè vale opporre il fatto della legge ingiusta la quale,
finché non sia abrogata, mantiene intatto tutto il proprio
valore giuridico, e che, nel linguaggio da noi usato, cor¬
risponderebbe insieme all’essere e al non-essere del va¬
lore morale. La legge ingiusta è il caso limite, si può dire,
dell’empirica opposizione della libertà alla legge; giacché
empiricamente la libertà si oppone a una legge che le
astratto come parte di un’altra azione o sistema di azioni. Essa
stessa, quando si attua, e quando si considera e valuta per sè
sola, è un tutto e un sistema già essa, e non ha un fine fuori di sè.
1 Eth. Nic., E 7, p. 1132 a, 20.
102
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
è esterna, in quanto la libertà ha in sè una legge sua.
Prometeo oppone alla giustizia di Giove la sua legge di
giustizia; e certo, se Promoteo non avesse in se stesso
Giove, l’opposizione sarebbe una opposizione reale, in
cui il diritto verrebbe escluso dalla dialettica della morale.
Ma in quanto la legge ingiusta è, finché non sia abrogata,
volontà di quello Stato, che è immanente nel cittadino,
la sua ingiustizia non è tutta ingiustizia, anzi può dirsi
una giustizia in fieri, la quale a poco a poco maturerà
fino all’abrogazione della legge stessa. E il cittadino che
vi obbedisce, malgrado l’ingiustizia avvertita, non obbe¬
disce a quella legge, ma ad una legge superiore che è
giusta, e di cui quella ingiusta è un particolare che correg¬
gere si potrà soltanto se si osservi la prima, secondo che
dimostra Platone nel Critone. Sicché la legge veramente
ingiusta è quella che si abroga e non è più legge, in forza
di quella legge costante e immanente, che è la stessa ob-
biettivazione della libertà nel suo processo.
Un’opposizione simile, anzi identica, a questa tra legge
ingiusta (diritto) e giustizia (morale) ricorre infatti nello
stesso ambito della coscienza morale dell' individuo empi¬
ricamente considerato in quella forma che i moralisti
dicono del conflitto dei doveri. Questo conflitto ha luogo
quando nella fenomenologia etica un dovere pare conduca
alla trasgressione di un altro dovere: ma esso, com è
noto, non è un conflitto assoluto e perentorio, poiché
rappresenta un grado affatto provvisorio e transeunte del
processo di unificazione e sistemazione della personalità ; nè
certo si può assumere a fondamento di una dottrina che
postuli più di una morale.
VII.
LO STATO
r. — Scoperta del concetto di Stalo.
Spetta a Hegel nella storia del pensiero il merito di
aver costruito, o, come altri direbbe, di avere scoperto,
il concetto dello Stato. Prima di lui, fino a Fichte, tra’
suoi stessi contemporanei, non si sospetta nemmeno il
carattere spirituale, e cioè la stessa sostanzialità dello
Stato, che non può esser nulla di sostanziale se non è
una realtà spirituale. Infatti prima di Hegel esso è sempre
concepito come qualche cosa di negativo, come un limite
che lo spirito, rappresentato dall’ individuo, — che solo
è coscienza di sè, e solo perciò realizza la realtà dello spi¬
rito,— incontra nel suo attuarsi. E chi dice limite, dice
negazione.
2. — Individualismo e giusnaturalismo.
Giacché il principio da cui si moveva per dedurre lo
Stato, era l’individuo. Il quale, come principio o punto
di partenza, non era ancora Stato, ma un assoluto prius
rispetto a questa formazione considerata secondaria, che
poi restava da spiegare.
Il presupposto individualistico è la base del giusnatu¬
ralismo e del conseguente contrattualismo: ossia di tutto
il pensiero liberale moderno prima di Hegel. Il diritto
naturale è infatti il diritto dell’ individuo di fronte allo
104
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
Stato: un diritto che lo Stato deve riconoscere perchè
preesistente come condizione della sua esistenza; almeno
come attributo dei soggetti individuali che dello Stato
sono la materia necessaria. Concetto storicamente giusti¬
ficato dalla lotta contro lo Stato dispotico: ossia contro
uno Stato che storicamente si poneva come il solo possibile,
e intanto, come dispotico, si voleva, e si do\eva, negare.
Concetto perciò, il cui reale significato speculativo si con¬
vertiva non nella limitazione delle pretese dello Stato
(come lo stesso giusnaturalista opinava), ma nella nega¬
zione della essenza dello Stato. E il diritto si trasferiva
dallo Stato all’ individuo appunto perchè si negava lo
Stato a cui potesse competere. E lo Stato dispotico gene¬
rava nell’ individuo che ne sentiva il dispotismo, questa
negazione dello Stato, perchè l’individuo vedeva in questo
soppressa quella libertà, che egli naturalmente, come
coscienza di sè, sentiva essenziale al realizzarsi della sua
propria essenza.
J. — Contrattualismo.
Il contratto sociale, da Althus a Fichte, trae la conclu¬
sione logica necessaria da questa affermazione dell’ indi¬
vidualità concepita come un antecedente dello Stato, e
risolve lo stesso nucleo attuale dello Stato nella sua cel¬
lula, che è la volontà particolare dell' individuo: particolare
in quanto derivante da questa critica negativa della uni¬
versalità dello Stato.
Secondo il contrattualismo, lo Stato va concepito sem¬
plice mezzo della realizzazione della libertà, ossia della
stessa realtà spirituale che sola restava in conseguenza
del giusnaturalismo : la realtà dell’ individuo, che, non
essendo universale e trovandosi perciò a dover esi¬
stere insieme con quella degli altri individui, riconosce
la necessità di un accordo, in cui il limite reciproco della
sconfinata libertà naturale renda compossibile l’armo-
LO STATO
105
nica convivenza dei diversi individui. L’accordo nasce
dall’adesione della volontà individuale; e intanto quindi
c’ è, in quanto questa volontà lo vuole. Limite perciò
che la stessa volontà dell’ individuo pone a se stessa,
senza che nulla dall’esterno agisca sopra di lei e ne sop¬
prima la libertà. E in conclusione, quel che esiste ed ha
valore in questo mondo morale, in cui si può parlare di
leggi e diritti in rapporto alla persona umana, non è se
non il puro individuo. In esso comincia e in esso finisce
il processo costruttivo e la ragion d'essere dello Stato.
Strumento dei fini individuali, questo vale quel tanto per
cui può servire a questi fini ; per essi si crea ; per corrispon¬
dere ad essi si trasforma; e quando non possa più adem¬
piere alla funzione per cui è stato creato, si annulla.
4. — Anarchismo e necessità
di un superiore concetto dell’ individuo.
Posto il concetto del diritto naturale (che è ancora il
concetto di Schelling), il concetto dello Stato, più o meno
esplicitamente, è negato. Lo Stato rimane una semplice
realtà di fatto, ingiustificata e ingiustificabile, contro la
quale batterà l’individualismo liberale — giusnaturali¬
stico e contrattualistico — fino a sboccare nella sua lo¬
gica conseguenza, dell’anarchismo.
Per scoprire il concetto dello Stato occorreva salire dal
principio individualistico dei giusnaturalisti a un princi¬
pio superiore. Bisognava approfondire il concetto del-
1 ’ individuo, e cioè dello spirito. Perchè la fonte da cui
il giusnaturalismo derivava i suoi diritti non era altro che
lo spirito, o natura spirituale dell’ individuo consapevole
di sè e perciò soggetto di diritto. Giusto infatti il con¬
cetto dello spirito come autocoscienza, poiché questa
appunto è l’essenza dell’ individuo. Ma superficiale e in¬
sufficiente il concetto di questo individuo come vien
rappresentato nella concezione individualistica.
I FONDAMENTI DELTA FILOSOFIA DEL DIRITTO
106
5. — Carattere materialistico dell’ individualismo.
La concezione individualistica è materialistica, e però
contradittoria al suo assunto di collocare nell’ individuo
l’autocoscienza. Chi dice autocoscienza dice spirito, il
quale non può esistere in un mondo materiale. Dove la
molteplicità è molteplicità pura, ed esclude l’unità; ed
ogni elemento della molteplicità esclude da sè tutti gli
altri, non essendo se non se stesso. Particolare, e nient’altro
che particolare.
Così per 1 ’ individualista la società rimane un aggre¬
gato di individui umani, ciascuno chiuso in se stesso,
senza nessun rapporto necessario con gli altri: autonomo
e autosufficiente, poiché ha in sè, dal punto di vista spi¬
rituale, tutto ciò che è essenziale alla sua natura (diritto,
morale, religione, arte, ragione e quindi sapere ecc.).
La storia, che è lo svolgimento o attuazione di questa sua
natura in connessione alla realizzazione della natura spi¬
rituale del gruppo sociale, anzi di tutta la realtà, secondo
questo modo di vedere è qualche cosa di estrinseco e di
accidentale, che la ragione dell’ individuo può criticare
e negare teoricamente e la sua volontà anche annientare
praticamente. La natura dell’ individuo è il presupposto
della storia, e quindi resta sempre fuori di essa.
Concezione contradittoria, perchè il materialismo im¬
plicito in questo naturalismo non si trovava per caso
insieme con una concezione spiritualistica, che potesse con¬
siderarsi come una superficiale velleità. Tanto era schiet¬
tamente materialistica la forma di cui riusciva a rivestirsi
questa concezione, quanto essa era veramente ed energica¬
mente spiritualistica. Perchè la più profonda ispirazione,
come già s’ è avvertito, di questo movimento filosofico-
politico è il bisogno di rivendicare, attraverso la controp¬
posizione dell’ individuo allo Stato e questa concentra¬
zione d’ogni valore nel primo termine vuotandone il se-
LO STAIO
107
condo, la sostanzialità dello spirito, e quindi la sua libertà
dall’oppressione esterna, e perciò materialistica, del di¬
spotismo. L’ individuo, portatore dello spirito, aveva bensì
bisogno di essere egli stesso concepito in forma più ade¬
guata alla sua essenza spirituale.
6 . — Concezione dialettica o storica dell’ individuo.
Questo il compito di Hegel già nella Fenomenologia
dello spirito. Nella quale si dimostra che la forma più
elementare della coscienza sensibile reca in sè un intrin¬
seco germe di autocritica e di autosuperamento in un
processo dialettico, che eleva la coscienza all’autocoscienza
e questa fino allo spirito, e questo di grado in grado fino
alla sfera del sapere assoluto passando attraverso tutte le
forme (morali, giuridiche, religiose, artistiche) della vita
sociale e storica. Basta la dialettica dell'autocoscienza
— dove Hegel ricerca « la verità della certezza di sè »
e dimostra come il rapporto tra signore e schiavo sia ne¬
cessario e immanente allo sviluppo dell’autocoscienza del-
1 ’ individuo affinchè essa si elevi a libera autocoscienza —
per sottrarre lo spirito, nella sua stessa individualità, alle
angustie della rappresentazione materialistica e per collo¬
care l’individuo in una luce nuova.
Nella nuova luce è subito dato di scorgere che egli non
è un semplice particolare, perchè tanto egli è spirituale,
e perciò anche individuale, nel significato proprio di
questo termine, quanto realizza di universalità. E poiché
questa realizzazione di sè, conquistando una forma sem¬
pre più universale e per tal modo più adeguata alla pro¬
pria essenza, è lo stesso processo storico della umanizza¬
zione dell'uomo, la storia non è più un’appendice estrinseca
alla realtà della natura spirituale, ma tutt’uno con essa. E
la sua positività od effettività; è quell’esistenza che,
come Spinoza vide profondamente, è intrinseca alla so¬
stanza (cuius essentia involvit existentiam).
io8
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
7. — Definizione dello Stato come sostanza etica.
La concezione naturalistica cedeva il luogo alla conce¬
zione storica (che più tardi doveva decadere a conce¬
zione storicistica) 1 2 . Nella quale lo Stato poteva assurgere,
per la prima volta, al concetto di « sostanza etica consa¬
pevole di sè » s .
Questa definizione è una delle maggiori conquiste della
coscienza moderna, politica e filosofica: la vera conquista
che l’uomo moderno compie della propria libera essenza
nel mondo positivo dei rapporti sociali, organati e definiti
nel diritto, riassunti e attuati dal volere universale dello
Stato. Giacché quale che sia la forma dello Stato che la
coscienza liberale dal punto di vista individualistico tenda
a realizzare, lo Stato da questo punto di vista sarà sempre
una negazione della libertà, come ben s’ intende per poco
che si rifletta sul carattere materialistico di ogni astratto
individualismo. Lo stesso anarchismo — il più logico
modo di concepire l’individuo in base al presupposto
individualistico — in tanto nega a vantaggio dell’ indi¬
viduo il valore di tutto ciò che lo trascende, in quanto dà
corpo e consistenza sostanziale a qualche cosa che tra¬
scende l’individuo. Il liberalismo tende a fare del limite
della libertà individuale il contenuto della stessa libera
volontà dell’ individuo; ma questa volontà positiva del
suo limite ha per lui una motivazione, che è fondata sul
1 Storica è la concezione attualistica della storia; ossia la
concezione che guarda alla storia che è la stessa storia propria
del soggetto che attua la coscienza di se come realtà essenzial¬
mente storica. Storicistica è la concezione astrattamente ideali¬
stica c però naturalistica di una storia che, come presupposto
della concezione stessa e però dello spirito in atto, non può
rappresentarsi se non naturalisticamente, ossia come un pro¬
cesso meccanico e privo della libertà e si di ogni valore.
2 Encycl., § 535; Philos. d. Rechts, § 257.
LO STATO
109
riconoscimento di altre individualità, estranee alla vo¬
lontà che si autolimita, e dalle quali pertanto questa
volontà è naturalmente condizionata. La ragione del li¬
mite è nel fatto, indipendente dalla volontà individuale,
della coesistenza di molti individui, che è come dire di
un mondo naturale, in cui questi individui si trovano a
vivere. In ogni caso si ammette, anzi si presuppone, che
ci sia una realtà che precede la presunta Ubera decisione
della volontà; una realtà che, precedendo la volontà, la
condiziona, e ne rende quindi inconcepibile la libertà. Lo
Stato come autorità è negato perchè rimane qualche cosa
di esterno all’individuo; ossia perchè l’individuo, dalla
sua parte, è limitato (e limitabile) da qualche cosa di
esterno alla sua sostanza. Concezione negativa (essenza
del Uberalismo, del giusnaturalismo e del contrattualismo)
che inchioda l’individuo al meccanismo d’un mondo, in
cui c’ è lui ec’è altro ; e in cui pertanto, qualunque sforzo
si faccia per attuare la Ubertà, questa si dim ostrerà sem¬
pre impossibile.
8 . — Universalità dell’autocoscienza come sapere.
Affinchè la libertà non sia un’ illusione come di chi
sogni di volare stando a giacere nel suo letto, bisogna
prima di tutto sottrarsi a questa fallace rappresentazione
dell’ individualità particolare, e però circoscritta dentro
limiti al di là dei quali ci possa essere qualche altra cosa.
E in verità, chi dice libertà, dice autocoscienza. E chi
dice autocoscienza, dice sapere. Sapere che non è logi¬
camente concepibile come sapere di un soggetto partico¬
lare, perchè sapere è sapere sempre universalmente. E
chi impara non fa se non passare da un sapere par¬
ticolare che non è sapere, a un sapere universale che gli
si presenta, al paragone, come solo sapere che sia vero
sapere.
no
I fondamenti della FILOSOFIA DEL DIRIV'iO
g. — Universalità dell'autocoscienza come volere.
Ma il sapere dell’autocoscienza non è solo teorico sa¬
pere, bensì anche volere, che pone in essere l’oggetto che si
viene a sapere; poiché è ovvio che quell’atto di sapere onde
si ha coscienza di sè, realizza appunto la realtà della co¬
scienza di sè. Io ci sono in quanto so di esserci, e affermo me
stesso. Affermazione che è evidentemente pratica, volere.
Ma il volere consapevole è, come il sapere stesso,
universale. E il soggetto che vuole, vuole sempre ponen¬
dosi come soggetto universale. E se sbaglia, non se ne
può accorgere se non universalizzando, e così correggendo,
il proprio volere. La dura scuola della vita è questo impa¬
rare a volere, trasformarsi in volere sempre più univer¬
sale, svestendosi a volta a volta della forma che, non
essendo sufficientemente universale, rispetto a quella che
ne palesa la insufficienza, è relativamente particolare.
io. — Processo di realizzazione
della universalità dell’autocoscienza.
Nella dialettica realizzazione che fa di sè l’autocoscienza
come sapere e come volere, l’autocoscienza stessa attua
la sua infinita universalità, e pertanto la sua libertà, così
nella famiglia e nella società civile, come, in modo più
concreto, nello Stato. Essa non è niente di naturale e
d’ immediato. L’ individualità è bensì autocoscienza; ma
autocoscienza che non è natura. E spirito, perchè si realizza
e conquista il proprio essere in quanto si sviluppa. E
sviluppandosi, si universalizza, si fa sapere e volere uni¬
versale. E quando si prende, idealmente, al principio del
suo sviluppo, non è ancora niente di reale e concreto,
ma solo l’astratta potenzialità; la quale non si può con¬
cepire come sostanza senza diventare qualche cosa di
assurdo che soffochi ogni tentativo che si faccia di pen¬
sarla nel sistema della realtà politica.
LO STATO
11 r
il- — Il processo dello Stato come processo dell' individue _
Nella realtà politica il costume (ethos), in cui la moralità
-ome universalità del volere, si viene attuando e determi¬
nando, diventa diritto, acquistando forma oggettiva e
consolidandosi in un’esistenza, che empiricamente si pre¬
senta come superindividuale ed extraindividuale, laddove
la sua stessa più salda oggettività, quando si consideri
in modo speculativo, importa relazione e immanenza
al soggetto. Ond’ è che lo Stato cessa finalmente di
opporsi e sovrapporsi all’ individuo, per interiorizzarsi
tanto, di quanto l’individuo si oggettiva ed univer¬
salizza. E resta bensì fermo il diritto dell’ individuo
di attuare sempre più pienamente se stesso e la prò
pria libertà, superando via via tutte le forme ogget¬
ti ve di Stato che non siano adeguate alle sue esigenze
reali; ma resta come il diritto stesso che lo Stato ha.
attraverso lo sviluppo dell'autocoscienza, che è sempre
individuale, di recare in atto il proprio ideale secondo la
sua propria logica.
Cessa infatti l’opposizione della libertà con la legge o
con l’autorità. E chi si rappresenta la concezione hege¬
liana dello Stato come una concezione autoritaria contro
la concezione liberale del giusnaturalismo individualistico,
non si rende conto, o meglio, ignora, il rapporto tra la
forma soggettiva e la forma oggettiva dello spirito in
quella Fenomenologia dello spinto da cui questa filosofia
prende le mosse. L’autorità è la stessa esistenza della
libertà; e la libertà fuori della legge è una mera astrat¬
tezza 1 .
1 Forma antiliberale, e in questo senso autoritaria, è quella
che tende ad arrestare il movimento dello spirito, che la libertà
realizza nella sua dialettica, in cui realizza se stesso. Ma questa
forma non si definisce in astratto; si manifesta e si prova
storicamente.
112
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
12. — Eticità dello Stato come sostanza.
La sostanza consapevole di sè, in cui lo spirito, cioè
1 ’ individuo, attinge la sua concretezza, è sostanza etica.
Per la prima volta essa è intesa come tale (bisogna ripe¬
terlo) nella filosofia hegeliana. Ed è un punto che, ancor
duro ad intendere per tutti i sopravvissuti del giu¬
snaturalismo — kantiani o cattolici —, si può dire rap¬
presenti la più significativa conquista di Hegel nella sua
dottrina dello Stato. Dove l’eticità è il suggello della
sostanzialità e spiritualità dello Stato.
Giacché una realtà spirituale non può non possedere un
carattere etico; ma non può nemmeno possederlo se essa
non sia una sostanza. Finché lo Stato era un semplice
mezzo, il valore etico non poteva spettare se non al fine
a cui esso doveva servire. Lo strumento potrà essere più
o meno utile; ma non potrà aver mai quel valore intrin¬
seco che compete al bene morale. E se si indietreggia
dal liberalismo individualistico e astratto al dispotismo,
a cui il liberalismo si oppose, e che al liberalismo tornò
ad opporsi nelle anacronistiche dottrine legittimistiche
del secolo decimonono, lo Stato come forza, o autorità
primitiva ed estrinseca, rappresenta un che di naturale,
un dato meccanico, che ripugna ad ogni attributo etico.
L’eticità è dello spirito. Ma non di qualsiasi elemento
accidentale del mondo dello spirito, sì dello spirito stesso,
in quanto sostanza autocosciente, soggetto reale della
sua propria esistenza, che è il suo mondo morale.
13. — Fondamento materialistico dell’accusa di statolatria.
La profonda differenza., sotto questo rispetto, tra Hegel
e gli altri, e i tanti che anche oggi, da diversi punti di vista,
accusano Hegel e gli hegeliani di statolatria, e si scanda¬
lizzano perché egli ha visto nello Stato non so che Dio
LO STATO
n.H
terreno (ein Irdisch-Gòttliches), è tutta qui: che gli altri
vogliono bensì lo Stato morale, e tutto indirizzato a fini
etici, ma, materializzandolo, gli negano la possibilità d’in¬
vestirsi da sè di questo carattere morale, e perciò lo vo¬
gliono assoggettato, come ogni strumento di cui l’uomo si
serva, o alla coscienza etica che l’uomo avrebbe in sè come
individuo posto di fronte allo Stato, o alla Chiesa che
della moralità dell’ uomo e di tutta la sua vita spirituale
presume di detenere il principio e il potere. Laddove per
Hegel tutti i programmi pratici a cui queste inesatte
dottrine possono dar luogo, sono essi stessi possibih per¬
chè lo Stato non è uno strumento, non è una cosa, ma
ha in sè quel divino, che è l’essenza della vita morale e
di tutta la vita spirituale : la libertà ; ed è perciò origina¬
riamente morale, e vive come spirito, che sarà più o meno
morale, ma tende ad essere assolutamente morale. Ten¬
denza è la stessa sua essenza.
14. — Impossibilità di conferire forma etica
allo Stato che non sia per se stesso elico.
In verità questa, dal punto di vista morale, la grande
difficoltà da superare a chi non ammetta il carattere
etico dello Stato. Bisogna pure che esso, se non è, diventi ;
accetti dall’esterno quello che non ha in se medesimo; e
che lo stesso uomo che opera politicamente, non cessi di
ispirarsi ai fini necessari del suo operare politico, per ricor¬
darsi dei dettami della sua coscienza morale. Ma in sede
di attività spirituale non c’ è nulla, che non sia prodotto
della stessa attività; nulla entra dall’esterno a riempire
interne lacune, 0 ad ornare od armare la libera produzione
che viene dall’ intimo.
E la verità è che 1 ’ Etat c’est moi : cioè 1’ Io, l’uomo,
che è persona in quanto autocoscienza, libera, e però
etica. E il nostro secolo vive di questo senso della inti¬
mità e spiritualità dello Stato, e guarda ad Hegel come
(» kntilk , I fondamenti della filosofia del diritto.
8
12 4 1 fondamenti della filosofia del diritto
all’antesignano di una nuova èra: che è sì l’èra della
libertà, ma della libertà reale, della vera libertà, che è
la libertà insieme del cittadino e dello Stato.
25. — Difetto dello Stato nel concetto di Hegel:
i limiti dello Stato.
Antesignano, che apre la via, ma non la percorre tutta
tino alla mèta, a cui tendeva.
Il concetto della eticità, spiritualità e libertà dello
Stato importava che lo Stato fosse infinito. Giacché lo
spirito è spirito in quanto è libero; e nulla che non sia
incondizionato e perciò infinito può esser libero. Nè al¬
cuno penserà mai schietta e vera eticità senza libertà.
Ma può lo Stato hegeliano dirsi infinito? Esso pare
sia limitato sotto tre aspetti; e cioè in primo luogo
perchè lo Stato, per Hegel, è uno Stato, e in concreto
perciò la sua volontà urta nella volontà degli altri; e
quella che riesce a realizzarsi non è la volontà dello Stato,
ma quella del mondo, in un processo che non è la storia
dello Stato ma la Weltgeschichte o storia universale; nella
quale a comporre ad unità le volontà discordi e molteplici
dei vari Stati interviene la guerra. In secondo luogo, nel
processo ideale dello spirito, lo Stato appartiene alla
sfera dello spirito oggettivo, che tramezza tra lo spirito
soggettivo e lo spirito assoluto: dei quali il primo non è
Stato e il secondo è più che Stato, in quanto supera e
perciò nega tutto lo spirito oggettivo. In terzo luogo,
dentro la stessa sfera dello spirito oggettivo lo Stato è
preceduto dalla famiglia e dalla società civile, che sono
spirito oggettivo ma non ancora Stato, pure essendone
base immancabile.
Queste tre limitazioni menomano certamente il carat¬
tere spirituale ed etico dello Stato nella dottrina hege¬
liana. E derivano dal metodo della sua filosofia non an¬
cora interamente libera dalle posizioni fenomeniche del-
LO STATO
115
l’empirismo. Il quale trae a considerare la realtà spiri¬
tuale dall’esterno, dove appariscono le forme di essa nella
loro irriducibile molteplicità, ma non lascia scorgere
l’unità del processo, in cui propriamente consiste la spi¬
ritualità dello spirito.
16. — Difetto di metodo.
Manca ancora nell’ hegelismo il concetto del vero me¬
todo idealistico, che noi diciamo metodo dell’ imma¬
nenza ».
Secondo questo metodo, lo Stato nel suo valore e nella
sua spirituale realtà non è quello che si vede e si chiama
Stato nel mondo dell’esperienza, che dicesi realtà storica.
Dove Stato è bensì il nostro, ma è anche quello degli
altri, di qua ma anche al di là dei confini che delimitano
il territorio dello Stato a cui noi apparteniamo ; e
insomma ci sono molti Stati, uno dei quali, pari a tutti gli
altri, è quello stesso a cui noi dobbiamo, per conto nostro,
riferirci, quando vogliamo davvero renderci conto dei
nostri doveri e diritti di cittadini. Ce ne sono tanti, e
tutti, rispetto al nostro interesse conoscitivo, da conside¬
rarsi alla stessa stregua; tutti dati e antecedenti della
nostra ricerca, la quale pertanto li presuppone, ne è con¬
dizionata, e deve attenersi a una esatta osservazione dei
loro caratteri, per quindi procedere alla discriminazione
di quelli, che tra questi caratteri si possono considerare
necessari ed essenziali, e quindi sono da mantenere
senza nulla aggiungervi nè togliervi. La posizione del
pensiero verso l’oggetto da conoscere è in questo caso
quello dello spettatore che è fuori dello spettacolo.
Posizione, evidentemente, empirica, e non speculativa.
1 Gentile, Il metodo dell' immanenza, nel voi. La Riforma
della dialettica hegeliana, 2 1 11 ed. Messina, Principato, 192 ^
pp. 209-247.
1T6 I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
A tale posizione sfugge, com’ è pure evidente, tutta
quella specifica realtà morale in cui lo Stato nasce e vive
e che è l’animo e l’atteggiamento spirituale del cittadino;
il quale praticamente, in concreto, non conosce (cioè,
non riconosce) altro Stato che il proprio, e non può
quindi sapere che cosa sia da pensare sotto questo
nome, se confonde il suo Stato tra i tanti. Come non
sa più che significhi madre, se questo nome non gli
rimette innanzi viva una persona, unica. Ognuno ha
la sua, ma nessuno ne ha più d una ; e nessuno può
parlare del mondo, in generale, senza parlare del
proprio unico mondo, dove la madre è una sola. Pre¬
scindere dall’ interesse pratico e spersonalizzarsi è pei
l’appunto mettersi fuori, in grazia della pretesa ' teoria
che è una mezza e assurda teoria del mondo. Il quale
mondo, se ha un valore e una reale consistenza, non la
può avere fuori degl’ interessi pratici, per cui l’astratto
soggetto diventa effettivamente una persona concreta.
j 7 . _ Gli Stati e lo Stato {nostro).
Il che non vuol dire, naturalmente, che si deve chiuder
gli occhi per non vedere gli altri Stati che limitano il
nostro. Vuol dire soltanto che non bisogna far confusioni,
e mettere tutti insieme gli oggetti di una cognizione
astrattamente teorica, con quei concreti oggetti della
nostra esperienza, che, impegnando la nostra persona,
dànno luogo a una superiore cognizione, che gli oggetti
ci fa conoscere per quel che realmente essi sono o devono
essere. Occorre cioè distinguere tra gli Stati che noi sap¬
piamo bensì che esistono, ma la cui esistenza non interessa
il nostro Stato, perchè il loro esistere o non esistere non
■ostacola nè favorisce l’esistenza del nostro; e gli Stati
■con cui il nostro è in relazione diretta o indiretta, amiche¬
vole od ostile. E evidente che soltanto i secondi entrano
a far parte del mondo, in cui noi sentiamo come vivo e
LO STATO
117
operante quello Stato, a cui noi apparteniamo e che
con la sua esistenza ci abilita a dire che cosa uno Stato
sia. E questi secondi è pur evidente che, in quanto per
la loro relazione col nostro Stato ci fanno sentire anche
essi, come il nostro, 1’esistenza d’una volontà, non sono
estranei al processo di autorealizzazione del nostro; anzi
concorrono al suo interno divenire al modo stesso che,
secondo la Fenomenologia, l’autocoscienza dell’ individuo
si sviluppa attraverso il rapporto di signore e schiavo.
L’altro è il nostro altro: volontà onde si viene determi¬
nando il contenuto della nostra volontà, nello svolgimento
storico di cui il centro e il principio è, e non può non es¬
sere, nel nostro Stato; e cioè in noi che realizziamo,
prima di tutto, lo Stato nostro. 1
18. — Identità di Stato e storia universale.
E in verità la filosofìa che costruisce la realtà secondo
il metodo dell’ immanenza, se si prova a concepire la
Wcltgeschichte (come ogni altra storia), non riesce a con¬
cepirla se non come storia contemporanea, e propriamente
come la storia che l’individuo soggetto del pensiero sto¬
rico fa di se stesso nel grande processo dello sviluppo
della sua propria personalità. La quale come soggetto,
in cui si realizza la Weltgeschichte, è lo stesso soggetto in
cui si realizza lo Stato. Sicché storia universale e Stato
coincidono.
19. — Oggettività della vita sociale interna allo stesso soggetto.
Da questo punto di vista in cui Stato e individuo coin¬
cidono, il soggetto non può mai concepirsi in una forma
» Intorno al concetto della unicità dello Stato, acute osser¬
vazioni hanno già fatte A. Volpicelli, Società, Stato e Società
di Stati, nei N. Studi di diritto, economia e politica, I (1927-28)
pp. 9-10, e Benedetto Gentile, Del rapporto tra diritto intera,
e diritto interno, negli stessi N. Studi, II (1929), pp. 344-351.
Il8 I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
così soggettiva che non contenga l’oggetto, in cui, secondo
la costruzione della hegeliana Filosofia dello spirito, si
accamperebbe la solida massiccia struttura della vita
sociale (diritto, moralità e costume, dalla famiglia allo
Stato). Nè può il soggetto, che è già coscienza, autoco¬
scienza e ragione, estraniarsi poi tanto da sè attraverso
questo mondo dei rapporti oggettivi da dover ritornare
quindi a se stesso superando tutta la sfera del mondo
sociale per elevarsi al puro e assoluto spirito, o assoluta
autocoscienza, nell’arte, nella religione e nella filosofìa.
Questa triade faticosa è fittizia e arbitraria. Fin dal primo
gradino lo spirito si può dire sia già alla vetta reale della
sua ascensione; e quella cima luminosa che pare gli brilli
tuttavia da lungi e dall’alto, è una fallace e illusoria proie¬
zione della sua stessa luce. Lo spirito teorico è già in se
stesso pratico; perchè la realtà che esso può conoscere
non è e non può essere altro che la sua medesima realta.
La quale non esiste se non in quanto egli la conosce; e
perciò nell’atto di conoscerla eo ipso egli praticamente la
pone. Nè è mai tanto pratico attraverso lo spirito ogget¬
tivo da creare altro che se stesso. Che se una volta pare
mera teoria e un’altra volta prassi, egli è perchè a paragone
dello spirito in atto si pone, anche questa volta, uno spi¬
rito semplice oggetto del nostro pensiero, e che il nostro
pensiero perciò colloca da se stesso innanzi a sè, come
qualche cosa di estraneo e a cui egli sia esterno. Posi¬
zione che non si può infatti realizzare senza rendere
assurda l’identità di individuo e Stato ; poiché in tale
posizione lo Stato realmente resterebbe di fronte all’ in¬
dividuo che si provasse a concepirlo come qualche cosa
di diverso e di irriducibile al processo della sua propria
formazione.
D’altra parte, in qual modo sarebbe possibile concepire lo
spirito assoluto come coscienza che la realtà assoluta acqui¬
sta di se medesima e non identificare questo spirito con la
stessa autocoscienza dello spirito soggettivo, se lo spirito è la
LO STATO
I IO
stessa realtà assoluta ? Questa coscienza di sè propria
della realtà può svilupparsi, ed è infatti nient’altro che
questo processo di sviluppo. Lo stesso Stato, come forma
dell’autocoscienza, è esso stesso, a suo modo, una forma
di filosofia
20. — Famiglia e Stato.
Infine, la famiglia, al pari della società civile, è una
entità solo empiricamente distinguibile dallo Stato, come
forma di sviluppo e organizzazione dell’autocoscienza. F.
l’empirica distinzione è resa possibile anche questa volta
dal considerare queste entità sullo stesso piano d’osser¬
vazione, dall’esterno, in quanto intellettualisticamente
opponendo a sè codeste entità le spoglia del loro pro¬
prio valore pratico, concreto, reale, per ridurle a mere idee
del logo astratto. Che se la famiglia è quella interiore
realtà etica che conosce chi la vive, e insomma se essa
veramente è una forma dell’autocoscienza e cioè dello
spirito nel suo effettuale esistere, essa non è più la fami¬
glia oltre la quale c’ è lo Stato, ma è la famiglia in cui
si esaurisce tutto il mondo etico.
Quello che all’osservazione empirica e intellettualistica
si rappresenta come sua specifica base naturale 1 2 (rapporto
tra i due sessi e generazione), al pari dell’elemento naturale
dello Stato (territorio), nell’atto etico si trasfigura e il
suo carattere naturale vien annullato. Anche qui l’auto¬
coscienza è tale in quanto affatto libera e infinita. Anche
qui questa libertà è possibile in quanto è tutt’uno con
una legge, che ha un aspetto giuridico e un aspetto schiet-
1 Gentile, Introd. alla filosofia, Firenze, Sansoni, pp. I74esegg.
2 Non si può dire che la famiglia sia « spirito immediato o na¬
turale» (come dice Hegel, Encykl., § 517) e non è vero neanche
che lo spirito « ist als Familie emfifindender Geist » (§ 518). La
stessa immediatezza, lo stesso sentire si trova anche nel senti¬
mento patriottico o politico, in quanto puro sentimento.
120
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
tamente morale. E viceversa, lo Stato, conosciuto in
quanto spiritualmente vissuto, è forma dell’autocoscienza
che non è più paragonabile alla famiglia perchè non è
realizzabile se non a patto che assorba in sè e annulli
la famiglia, in guisa da far tacere nel petto dell’uomo
ogni voce discorde di leggi diverse e da unificare interessi
spirituali che altrimenti si presenterebbero spesso con¬
trastanti.
Nell’attualità spirituale la famiglia è Stato, e lo Stato
è famiglia. E la società civile, come quel sistema dell’ato¬
mistica 1 che Hegel dice, e a cui la società infatti si riduce
appena gl’ individui suoi componenti si considerino go¬
vernati naturalmente dai loro particolari interessi, non è
se non lo Stato privato della sua eticità, ossia della co¬
scienza della sua essenziale interna imità (àusserer Slaat).
Ma questo Stato puramente materiale ed esteriore è evi¬
dentemente una mera astrazione, la quale in ogni più
rudimentale forma di vita sociale dev’essere già superata,
poiché lo Stato nella sua essenziale eticità non è qualche
cosa di superiore ed esterno che l’individuo debba con¬
quistare, poiché egli 1 ’ ha già in sè originariamente. Così
nell’effettiva realtà umana non c’ è atto economico che non
sia etico, e quindi politico; non c'è società civile che non
sia anche Stato.
i Encykl., § 523.
Vili.
LA POLITICA
i. — Il diritto come astratta posizione del volere ed eticità.
Il diritto, come abbiamo visto a suo luogo, è un
momento astratto della volontà; nella cui effettiva at¬
tualità la forma giuridica è sempre superata e assorbita.
L’attualità del volere è infatti etica.
In che consiste l’eticità ? Essa non è altro che la stessa
forma concreta del volere, che, volendo, si attua come
libertà: crea cioè una forma di esistenza che è spiritua¬
lità, cioè il bene, e la cui negazione è il male. Sicché,
volere, e non volere il bene, è impossibile. Non bene
(male) è non volere. E la realizzazione del bene, nel senso
morale di questa parola, non è altro che realizzazione
della volontà.
2. — Critica della opposta opinione.
Il fatto che gli uomini parlano di diritto non basta a pro¬
vare la concretezza (esistenza) di una mera realtà giuridica.
Gli uomini parlano sempre di natura ; ma per chi sia per¬
venuto a rendersi conto del concetto che da tutti si
esprime parlando di natura, è ovvio che non c’ è una
realtà naturale, condizione e presupposto della vita dello
spirito. Il che non significa che si sbagli a parlare di natura.
Significa soltanto che generalmente si attribuisce alla
parola natura un significato che essa non può avere; e
122
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
ciò in base a una filosofia insufficiente, che è tuttavia
una filosofia, ossia un modo di pensare; poiché nessuna
parola mai è possibile che abbia un significato se non
per chi l’apprenda e l’intenda come soltanto è possibile
che qualche cosa s’intenda, cioè pensando; pensando,
s’intende, secondo un proprio modo di pensare.
L’insufficienza della corrente filosofia che induce a
intendere la natura come l’intende il naturalista, quasi
che una natura fosse possibile fuori dello spirito, è la
stessa insufficienza che non lascia scorgere l’astrattezza
della forma giuridica dello spirito: quella insufficiente
consapevolezza della complessa struttura organica dello
spirito, per cui un momento distinguibile bensì e isola¬
bile per astrazione si scambia per la stessa realtà in sé
compiuta e perfetta.
3- — La legge come azione giuridica.
Il diritto è il momento obbiettivo del volere, considerato
nella sua obbiettività, ossia nella sua rigida opposizione
al soggetto che vuole. Universale e individuo nella sua pre¬
cisa particolarità. Ma chi vuole, non vuole la legge astratta,
pura universalità senza relazione di sorta con 1’ indivi¬
dualità del soggetto che vuole. La legge astratta non è
legge: può essere, tutt'al più, formula, definizione, di
carattere meramente teoretico, senza nessun valore pra¬
tico. La legge è legge in quanto regolatrice dei singoli
atti della volontà; osservarla è possibile soltanto nei casi
pratici. Ciascuno dei quali per altro è suscettibile di un
operare giuridico in quanto rientra sotto la legge, e il
volere vi si attua come volere legale.
Grave errore è pertanto quello che si commette, se¬
condo l’assurda teoria logica dei pseudoconcetti, quando
si attribuisce una qualsiasi consistenza alle leggi astratte
nella loro fantastica universalità. Non è vero che una
legge sia concepibile, col suo valore di legge, fuori di
LA POLITICA
-123
tutti i casi particolari, di cui essa si pone e vuole farsi
valere come legge. E come tale può farsi valere ad un
patto: che sia l’anima di tutti i casi particolari in cui
storicamente si attua: la stessa volontà realizzatrice degli
atti giuridici in cui si determina come forza reale e real¬
mente operante. La legge insomma è la forma univer¬
sale degli atti che si compiono in funzione di essa; e che
si devono compiere, in quanto sono da essa prescritti.
La forma di cui si parla, non è vuota forma, se la legge
è legge e si dimostra tale ; ma ha il suo contenuto nelle sin -
gole volizioni. Ciascuna delle quali non è qualche cosa che
si aggiunga dall’esterno alla forma universale; anzi è la
determinazione, che essa, in quanto legge del volere o
volere conforme a legge, si dà da se stessa.
L’unità della particolarità della singola volizione e
della universalità della legge costituisce l’individualità
dell’azione giuridica. Chi dice legge dice dunque, nè più
nè meno, azione giuridica.
4. — L'azione giuridica come volontà voluta.
L’azione giuridica è, essa appunto, il diritto: quello che
abbiamo detto il momento obbiettivo della volontà. La
quale vuole volendo qualche cosa, il suo oggetto. Ma
quest’oggetto, a ben riflettere, non è altro che la stessa
volontà che vuole.
Un esempio. Io voglio, poniamo, scrivere una parola
(tanto per contentarsi di poco !). L’oggetto qui pare che
sia lo scrivere una parola. Ma quest’oggetto è inconcepi¬
bile se non s’intende lo scrivere al solo modo in cui è
possibile che ci sia uno scrivere : e cioè, in quanto c’ è
chi scriva. E lo scrivere che io voglio non è lo scrivere
eventuale d’altri, ma il mio: ossia quello scrivere che c’ è
in quanto scrivo io. Quel che voglio dunque non è l’astratto
scrivere, ma, in concreto, il mio scrivere, o me scrivente:
quello stesso me che vuole; e che vuole effettivamente
124
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
scrivere, non in quanto abbia desiderio o intenzione, ma
in quanto, essendo quel determinato me che è, capace
di scrivere e in possesso d’ogni sussidio scrittorio, at¬
tua la propria volontà scrivendo. La volontà è per tal
modo volontà di se medesima.
Non che ci siano due volontà: una volente e l’altra
voluta ; sì che la volontà-soggetto ci sia già quando ancora
sia in procinto di fare di sè oggetto a se medesima, ma
ancora ciò non abbia fatto. Le due volontà sono l’unica
volontà in atto, che ha in sè, quando si attui e in quanto
si attui, questi due momenti, e quasi queste due facce.
È soggetto ed è oggetto di se stessa, essendo soggetto in
quanto è oggetto, e viceversa
5. — II limite giuridico della volontà
come autolimitazione.
Le determinazioni singole della volontà, sia come sog¬
getto sia come oggetto, variano perchè la volontà ha il
suo processo storico. Ma attraverso questo processo e
tutte le varietà in cui esso si articola, il ritmo essenziale
è sempre quello; e la volontà sempre, restando una, si
sdoppia in se medesima come volontà volente, e come
volontà voluta.
Il diritto è la volontà voluta: questa astratta posi¬
zione che ha luogo in quanto nel processo della volontà
si considera il solo momento oggettivo e si prescinde dal
soggetto a cui esso è correlativo. Ma tutta la storia del
diritto — origine dalla consuetudine col suo spontaneo
sviluppo, lotta tra il vecchio diritto e il nuovo spirito e
nuove condizioni sociali, decadenza del diritto, abroga¬
zione di esso o rivoluzione — si spiega per questa intrin¬
seca natura del solo diritto che possa regolare di fatto
la volontà, in quanto ne è la sua stessa intima determi¬
nazione. La quale, astrattamente considerata, è un li¬
mite, e nient’altro che un limite, del volere, e quindi un
LA POLITICA
12 5
principio opposto al soggetto; laddove in concreto è l'og-
gettivazione e quindi la libera determinazione e autoli¬
mitazione del volere stesso. Il limite non è la negazione,
ma l’affermazione del libero volere; non dimostra la de¬
bolezza, anzi la potenza del soggetto.
Del soggetto, s’ intende, nella sua universalità. La
quale, anche questo s’intende, è uno sviluppo continuo,
per cui l’universalità del volere non ha Io stesso valore
nel selvaggio e nell’uomo civile, nel bambino e nell’adulto,
nell’uomo incolto e nell’uomo educato a sentire in se stesso
come proprio interesse l’interesse del suo popolo o l’in¬
teresse assolutamente umano. E s’intende altresì, perchè
questa universalità, essendo un attributo spirituale (qual¬
che cosa che dev’essere, ancorché di fatto non sia, o
non sia per l’appunto quale dev’essere), si presupponga
moralmente in un popolo che abbia coscienza della sua
morale personalità o esistenza nazionale, anche se in un
individuo particolare si desideri. Universalità di diritto
più che di fatto, per cui la legge si pone e si fa valere come
autolimitazione anche se a un cittadino che deve osser¬
varla possa apparire un esterno e violento limite della
sua libertà.
6 . — La dialettica del diritto.
Il diritto bensì non si può intendere come autoli¬
mitazione o libera determinazione del volere se si
cerca negli antecedenti o nei conseguenti, saltando a
occhi chiusi il momento spirituale che gli è proprio. Il
diritto, nel suo specifico contenuto, non c’ è finché non
ci sia una legge — scritta o non scritta — ma, comunque,
riconosciuta quale limite o determinazione dell’ indeter¬
minata libertà infinita del soggetto. E non c’ è più quando
il soggetto supera questa prima immediata opposizione
tra sé e il suo limite, operando e facendo sua le legge.
Accade bensì che, operando, il soggetto non faccia sua
126
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
la legge e non l’osservi. Ma non perchè gli riesca di ope¬
rare senza determinarsi. In tal caso egli si limita in un
diritto che non è il diritto universalmente riconosciuto.
Osserva una sua legge che non è la legge. Avrà torto.
E gli si deve praticamente dimostrare. Donde la dialet¬
tica necessaria perchè da questo divergere dell’univer¬
salità del soggetto dall'universalità della volontà che una
legge presuppone, deriva la possibilità del movimento
del diritto, del suo progresso, ossia della dimostrazione
della sua spiritualità.
Così, per esempio, la legge non scritta di Antigone
è una legge superiore alla scritta, che lotta contro di que¬
sta, la critica e promuove lo svolgimento della coscienza
giuridica. Il ius condendum agisce per tal modo sul ius
conditum : e nella sua stessa idealità e mancanza di posi¬
tività si pone pur sempre innanzi alla volontà come limite
oggettivo. La giustizia ideale misura della giustizia
reale non è norma etica che si contrapponga, come tale,
alla nonna giuridica, anzi, come giustizia che preme sullo
stesso sistema delle azioni giuridicamente regolate, è
diritto essa stessa, la cui forza reale e positivamente limi-
tatrice della volontà singola nasce dalla stessa energia
con cui si afferma nella sua idealità. Tanto maggiore
questa forza, quanto maggiore l’energia di convinzione
e la potenza di universalità del soggetto affermante.
7. — La fenomenologia del diritto.
Il diritto è dunque nell’atto stesso del volere. Tale
volontà volente, tale volontà voluta: due volontà in una.
Così essendo, ognun vede come sia da rispondere alla
domanda, se sia prima il diritto, o prima la volontà che
dal diritto è limitata. Prima non ci può essere se non o
un’astratta volontà o un diritto astratto. Il diritto astratto
è quella veste che è fatta per tutti e non s’adatta a nes¬
suno. Diritto che non è diritto. L’astratta volontà è una
LA POLITICA
I27
volontà che, essendo ancora al di qua d’ogni determi¬
nazione, è suscettibile di tutte le determinazioni, ma
non ne ha di nessuna in particolare, e quindi è vo¬
lontà che non è volontà. Volontà e diritto concorrono
in una sintesi, che ne è la condizione a priori; e un ter¬
mine pertanto non si troverà mai senza l’altro.
Il carattere di antecedenza che il diritto, nella sua feno¬
menologia, riveste rispetto alla volontà, non si spiega
come un carattere cronologico, ma soltanto come un
carattere puramente ideale. Il diritto non è un passato
rispetto all’atto spirituale in cui esso vale come diritto;
ma ha comune con tutto ciò che è passato l’irriformabilità
e meccanica necessità. Privato di questa necessità, il di¬
ritto cessa di essere quel limite della volontà che esso è;
cessa di esser diritto. E siffatta comunanza di carattere
tra passato e diritto, come tra passato e pensato, o detto,
o fatto, o comecchessia già posto in essere, conferisce al
diritto, come al pensato, detto o fatto ecc., quell’ ideale
anteriorità alla sua affermazione, che fa parere il diritto
un antecedente della volontà; ed è un antecedente se
questo termine vale come sinonimo di necessario, mecca¬
nico od opposto alla libertà propria dell’atto spirituale.
Di cronologicamente antecedente alla volontà non c’ è
altro che il diritto astratto.
8 . — La legge morale e le leggi.
Nella concreta sintesi della volontà e del diritto, della
libertà e della legge, è l’attualità del volere. Il quale,
in tale sua attualità, è volere morale.
La legge pertanto è sempre giuridica in quanto deter¬
minazione e limite della volontà. Una sola legge può
dirsi morale, come propria non dell’astratto momento
della volontà voluta, ma del concreto volere, sintesi di
libertà e di legge: ed è la legge di questa sintesi, in cui
la libertà si limita, e il limite si spiritualizza diventando
128
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
determinazione della libertà. Operare moralmente è rea¬
lizzare questa sintesi in guisa che il contenuto del volere
sia lo stesso volere, libertà e diritto coincidano e attra¬
verso la sua determinazione il libero soggetto non faccia
che realizzare se stesso. Ogni immoralità è dissidio e
contrasto tra libertà e diritto, tra volere e voluto : empiri¬
camente parlando, tra azione e precetto.
La legge, al singolare, è morale; al plurale (le leggi
diverse, in cui si vien determinando il volere) è diritto.
9. — La politica e lo Stato.
La politica non è diritto, ma morale: non è nè astratto
volere, nè astratto voluto. £ volere in atto.
£ il volere di un popolo, in quanto il popolo ha un
volere. Il che vuol dire, in quanto ha una coscienza uni¬
ficata; ma una coscienza, che sia autocoscienza, persona¬
lità, e perciò volontà.
La volontà di un popolo, che si sente nazione (e si
vuole come tale), è lo Stato. Quindi Stato e politica sono
tutt’uno, e la distinzione non può essere se non verbale
come quella per cui del volere che è verbo si fa un so¬
stantivo, e si può dire quindi che il volere vuole, quasi
che il volere potesse anche esserci senza l’atto del volere:
quasi che sostantivando dei verbi si creassero sostanze,
o cose, concepibili come indipendenti dalle loro azioni
e manifestazioni. Tutta la sostanzialità dello Stato si
esaurisce nella volontà con cui esso si attua, o dicasi
pure, in tutto quel complesso di azioni, che sono la
politica dello Stato.
io. — La volontà del popolo e V individuo.
Ma qual’è il volere di un popolo ? Non certo la somma
dei voleri degli individui che lo costituiscono ; bensì quel
volere unico che ognuno di questi individui (pochi, molti,
LA POLITICA
129
moltissimi) attua, come volere che valga per volere di
tutti: ossia il volere uno individuale come volere comune,
in quanto riesce ad esser tale. Volere comune, che non è
una trasformazione del primitivo volere particolare del
singolo. Il volere, in quanto tale, è universale. Soltanto,
la sua universalità si viene svolgendo: e più il volere
matura e si potenzia, e più la sua universalità apparisce
e trionfa. L’uomo politico non è di una diversa pasta del¬
l’uomo privato: l’uomo in quanto uomo è £ò>ov jtoXitixóv,
e volendo, sempre, vuole per tutti: salvo che, sotto que¬
sto come sotto ogni rispetto, c’ è il mediocre presuntuoso
e c’ è il valentuomo. Nè l’uomo politico adempie funzione
fondamentalmente diversa se capo o gregario. Tanto
dipende la volontà dell’ inferiore dalla volontà del supe¬
riore, quanto questa da quella: nel senso che ciascuna
deve prendere a sua propria norma l’altra; e ciascuna,
a suo modo, si può pur dire che abbia in se stessa la norma
sua.
Ogni individuo agisce politicamente, è uomo di Stato,
e reca in cuore lo Stato, è lo Stato. Ciascuno a modo suo,
ma ciascuno tuttavia concorrendo in uno Stato comune,
in virtù dell’universalità che è propria della sua stessa
personalità (come lingua, storia, economia ecc.). Lo
Stato perciò non è inter homines, ma in interiore homine.
La miglior risposta che si possa pertanto dare alla
domanda che è a capo di questo paragrafo, è quella che
ognuno riceve dalla sua propria coscienza in quanto egli
ha pure una volontà politica. Ogni altra risposta è teo¬
rica ed astratta, o peggio, rettorica e falsa. Come chi
cerca sinceramente Dio, non può trovarlo altrove che nel
suo petto, così chi vuol vedere questo Stato di cui tutti
parlano e di cui pochi riescono a farsi un’ idea che non
sia affatto fantastica, bisogna che guardi a se medesimo,
nella propria coscienza, all'atto onde si vien costruendo
la sua personalità. Fuori della quale ci può esser l’ombra,
non il corpo dello Stato.
Gkntilk, I fondamenti della filosofia del diritto.
9
130
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
il. — La storia del diritto.
Il volere del popolo è dunque il volere stesso dell’ indi¬
viduo nel suo valore universale, o di popolo. Volere con¬
creto, unità di volontà volente e di volontà voluta, di
libertà e di diritto, e perciò morale. Chi intenda pertanto
questo rapporto della morale col diritto, si rende conto
della profonda differenza e dell’ intrinseca connessione che
c’ è tra politica e diritto. La politica, creando la realtà
politica, crea quell'elemento di questa realtà, che è il
diritto. La storia del diritto di un popolo è nella storia
della sua vita politica, come la parte è nel tutto. Il diritto
per sè solo è un che di meccanico, che si fìssa in formule
che sono quello che sono, e non sono suscettibili di alcuno
svolgimento e variazione. La fissità e invariabilità è il
carattere stesso essenziale del diritto. E se esso potesse
estraniarsi e segregarsi dal processo della vita politica,
rimarrebbe in una immobilità assoluta, condannato alla
morte. Il diritto invece vive variando e rinnovandosi di
continuo, in quanto si risolve nella vita concreta dello
spirito, che è volontà morale, e cioè politica.
12. — Diritto e logo astratto.
Chi conosce la logica del logo astratto e la dialettica
per cui questo logo si risolve a volta a volta nel logo con¬
creto 1 , intende agevolmente la differenza insieme e la con¬
nessione che c’è tra la morale o politica e il diritto.
In realtà, diritto e logo astratto sono due aspetti dello
stesso atto dello spirito. E chi approfondisca lo studio di
questi due aspetti, che sono i due aspetti della volontà e
del pensiero, ne scorge l’unità essenziale. Ma non occorre
1 Cfr. Sistema di logica' 1 , Bari, voi. II, 1923, pp. 25-31.
LA POLITICA
131
qui complicare la questione presa a trattare con quest’al-
tra della relazione tra pensiero e volontà. E basti aver
accennato all’analogia tra le forme in cui si determina
la volontà e quelle in cui si determina il pensiero; poiché
quest’analogia può giovare alla più netta e ferma configu¬
razione del diritto in riscontro con la politica.
13. — Le obbiezioni alla dottrina
della identità di morale e politica.
Nè questo è il luogo per discutere le solite obbiezioni
contro 1’ identificazione della politica con la morale.
Obbiezioni derivanti, in generale, da una maniera piutto¬
sto giuridica o legalistica di concepire la morale come
sistema di valori trascendenti la volontà; laddove la
morale è bensì legge, ma è anche libertà, volontà,
forza; e la politica è bensì forza, ma quella stessa forza
che l’attività morale, in tutta la sua pienezza: la maggior
forza che ci sia. E il migliore, o almeno uno dei modi più
efficaci di criticare e superare cotesto modo legalistico
di concepire la morale, è questo di far valere la sua iden¬
tità con la politica, in cui più aperta e manifesta è l’im¬
portanza del momento soggettivo, storico e realistico della
volontà morale: che è poi il momento stesso dell’ interesse
14. — Il diritto corporativo e lo Stato corporativo.
Dato il rapporto tra diritto e Stato o politica, è evi¬
dente che non è pensabile forma di diritto che non sia la
proiezione di una forma di Stato. Così il diritto corporativo
è il diritto proprio e caratteristico dello Stato corporativo.
La formazione giuridica è sempre quella. Cambia il con¬
tenuto del diritto in funzione del nuovo atteggiamento
dello Stato. Il quale con la corporazione nega il partico¬
larismo e individualismo liberale dell’economia, ossia
dell’astratto momento dell’ interesse. Conserva bensì l’in-
132
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
dividuo, come centro dell’ interesse (proprietà e libertà
d’iniziativa), ma, approfondendo il concetto dell’ interesse,
ossia il concetto stesso dell’ individuo, scorge e riconosce
i legami essenziali dell’ individuo con la società nazionale,
e instaura pertanto la coscienza dell’universalità imma¬
nente alla volontà dello stesso individuo: solleva cioè
1 ’ individuo dalla sua empirica particolarità all’univer¬
salità essenziale che conferisce alla sua azione un valore
morale e perciò politico; o meglio, più intensamente mo¬
rale e più energicamente politico.
Il carattere corporativo del diritto è un riflesso del
carattere più schiettamente morale e politico dello Stato.
APPENDICE
CHIARIMENTI *
Il prof. Miceli, uno dei più colti e operosi cultori degli
studi di filosofìa del diritto, e tanto autorevole quanto
modesto, ha scritto una nota 1 2 3 per discutere il mio con¬
cetto del diritto come momento necessario alla dialettica
del volere; e ne trae occasione per mettere in luce
qualcuna delle inesattezze in cui è incorso trattando di
quesito argomento 3 il Di Carlo e ribadire la propria tesi
radicale circa l’impossibilità d’una vera e propria filo¬
sofia del diritto, distinta dalla teoria generale del diritto.
E io gli son grato dell’attenzione messa nell’esame della
questione e delle cortesi parole rivoltemi ; quantunque le
conclusioni a cui perviene intorno al mio concetto e alla
natura del diritto in generale non riescano a convincermi.
Comincio dal secondo punto; dove mi pare che il Mi¬
celi indulga un po’ a certo modo troppo reciso e sommario
di contrapporre l’empirismo alla filosofia, dicendo il diritto
« un fenomeno, un fatto storico, del quale non è possibile
dare un concetto filosofico » e affermando che « la filo¬
sofia non può fare 1’ impossibile », cioè « trasformare in
1 Dal Giornale critico della filosofia italiana, I (1920), pp. 356-358.
2 Vincenzo Miceli, Il concetto filosofico del diritto secondo
Giovanni Gentile. Nota critica, Pisa, Mariotti, 1920; estr. dagli
Ann. delle Univ. toscane.
3 I principii fondamentali della filos. del diritto secondo il pro-
fess. Gentile, nel Circolo giuridico di Palermo, voi. 41, 1920.
136 I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
un concetto universale ed assoluto ciò che è un prodotto
storico, una formazione sociale, determinata da certe
esigenze della vita in comune quali si sono storicamente
manifestate, a misura che si è svolta negli individui
umani una data forma di coscienza sociale ». Questo
modo di considerare la realtà come collocata innanzi allo
spirito umano in un doppio piano, ora come realtà empi¬
rica, storicamente determinata, e ora come realtà assoluta,
eterna, oggetto di conoscenza speculativa, è in contrad¬
dizione con tutte le dottrine fondamentali della filosofìa
contemporanea.
La realtà è una; e quella stessa che ad un grado di ri¬
flessione o da un certo punto di vista apparisce tempo¬
ranea e relativa a certe contingenze storiche, ad un grado
di riflessione ulteriore o da un altro punto di vista si svela
eterna e assoluta. La filosofia non ha un dominio sepa¬
rato da quello delle scienze o del sapere volgare: nihil a
se alienimi putat ; e la differenza dell’oggetto, rispetto alle
altre forme di conoscere, è differenza appunto di forma
conoscitiva. Il filosofo, come oggi s’ intende, non lascia
la terra agli uomini pratici ed empirici, per volgersi al
cielo; non lascia agli altri il reale, per contentarsi del-
l’ideale, nè va a caccia di una realtà estrastorica. La sua
filosofia è storia non semplicemente come metodologia sto¬
rica ma come storiografia, anzi come storia in atto; voglio
dire come conoscenza e azione storica in atto.
Quello che, appartenendo al mondo empirico (ossia al
mondo quale si configura in funzione della mera esperienza),
si sottrae all’ambito della filosofia, è quello che passando
dalla esperienza alla filosofia svanisce. Ma che cosa può
svanire per effetto di tale passaggio ? Evidentemente,
non può venir meno se non ciò che nell’oggetto empirico
costituisce appunto la sua empiricità: la forma, cioè,
propria dell’oggetto in quanto termine di conoscenza
empirica. La quale forma non è altro che l’astrattezza
dell'oggetto. (Astrattezza relativa, la quale cede il luogo
APPENDICE
137
a una relativa concretezza: per cui la filosofia di uno è
empirismo d’un altro). Così il Miceli non vede diritto se
non dov’ è Stato, ossia « un ordinamento costituito, sotto
un potere sovrano ». Il quale ordinamento è prodotto
storico, formazione sociale ecc. E sta bene. Ma questo
Stato storico ed empirico, che conferisce gli stessi caratteri
al diritto, che lo presuppone, non è un fatto storico nel
senso che il Miceli intende, se non in quanto empirica¬
mente, e però astrattamente considerato. E che codesto
concetto sia astratto lo ha implicitamente riconosciuto
lo stesso Miceli, dove accetta da me, e me ne dà lode,
la dimostrazione che « la supposta esteriorità e coatti¬
vità del diritto sono caratteri empirici, che si dissolvono
allorché si portano nel campo della filosofia, poiché il
diritto (il diritto stesso, si badi) opera sempre per mezzo
del volere libero e questo agisce giuridicamente solo
quando fa proprio il comando esterno, solo quando tra¬
sforma in suo atto intimo la coazione» (p. 91).
Una volta su questo terreno, il Miceli deve pur ricono¬
scere che, come io ho osservato, lo Stato vero e reale non
è lo Stato inter homines, ossia quel tale Stato storico, che
egli intende come meramente empirico e contingente, ma
lo Stato in interiore homine. Il quale sta al primo proprio
come il concreto sta all’astratto.
Empiricamente considerando, si guarda al solo lato
esteriore dello Stato, e quindi della coattività del diritto,
trascurando quell’atto spirituale in cui questi elementi
esteriori devono pure rappresentarsi e farsi valere. E
quando si sale alla considerazione speculativa per cui il
diritto, come lo Stato, diviene una determinazione in¬
terna del volere, non è già che si sopprima l’esteriorità
(che sarebbe un barattare un astratto con un altro astratto),
ma vi si scopre il limite che per propria virtù intrinseca il
volere pone a se medesimo. Ecco tutto.
Ad ogni modo, per sottrarre il diritto al dominio della
filosofia dimostrandone 1 ’ intimo rapporto con lo Stato,
I38 I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
bisognerebbe provare che lo Stato a sua volta non è ma¬
teria di riflessione filosofica. Ciò che non si può pensare,
se non arrestandosi a una semplice rappresentazione par¬
ticolare dello Stato.
In generale, conviene osservare che nessuna formazione
storica reale e concreta sfugge come tale alla competenza
del pensiero filosofico; la cui applicazione al fatto storico
era infatti illegittima finché nel fatto storico non si seppe
veder altro che un fatto (laddove per la moderna filosofia
esso, nella sua spirituale intelligibilità, è atto), e finché,
d’altra parte, per filosofia s’intese la scienza delle idee
astratte, anzi che della stessa immanente realtà. Ancora
nella filosofia kantiana l’elemento empirico e contingente
(il dato) viene opposto alla categoria. Ma questo dualismo
è insostenibile; e il nuovo concetto della sintesi a priori
importa che categoria e dato sono le due faccie del mede¬
simo atto spirituale; che è categoria, sempre, nella sua
forma, e dato nel suo contenuto; sicché non c’ è con¬
cetto che abbia un valore e che non sia, in quanto ha
valore, categoria.
Ma per ciò che riguarda in particolare la tesi da me
esposta intorno alla natura del diritto, la difficoltà indi¬
cata dal Miceli mi pare possa ridursi a un dilemma. O
cioè il diritto si distingue dalla morale, come il voluto
si distingue dal volere; e allora nella sua distinzione
il diritto, come semplice voluto, non assorbito dal vo¬
lere in atto, è un che di astratto, determinato solo empi¬
ricamente; e che dà luogo perciò a una cognizione empi¬
rica, ma non si presta a una definizione filosofica. O il
diritto si toghe alla sua astrattezza, e s’intende come
l’attualmente voluto, ossia come volere in atto; e allora
si consegue bensì un concetto filosofico, ma questo sarà
il concetto della morale e non del diritto.
Il Miceli, con la sua solita finezza, precede la mia ri¬
sposta, che accenna e insieme ribatte in questa forma:
« Nè vale affermare che questo voluto entra sì nell’atto
APPENDICE
139
del volere, ma vi entra come contenuto; perchè allora
bisognerebbe scindere il momento presente in due parti
distinte: un volere e un voluto. Se non che con ciò si scin¬
derebbe l’unità dello spirito e cioè dell’atto. Il voluto
non può essere che un voluto e perciò, entrando nell’atto
del volere, esso cessa di essere un già voluto, nel senso
logico, e diventa volere» (pp. 10-11). La mia risposta è
proprio quella preveduta dal Miceli: il voluto è il voluto
del volere. Non c’ è altro voluto concreto ; e non c’ è
propriamente diritto, che sia stretto diritto, ribelle a
lasciarsi assorbire nell’atto del volere morale, all’ infuori
di quel voluto astratto che il soggetto non sente di volere :
ma che, se egli effettivamente non lo vuole, non sarà mai
effettivamente diritto, e se, per quanto malvolentieri,
s’induce a volerlo, non può volere se non con un atto
morale. Guardiamo dunque al diritto che si realizza in
concreto, e che è pertanto il voluto del volere.
Ora, in questa assunzione dell’astratto nel concreto, 0
meglio in virtù di questa immanenza del momento giu¬
ridico nel sistema concreto della volontà, che è essenzial¬
mente attività morale, si dilegua forse l'elemento giuri¬
dico ? L’essere il contenuto della volontà non separabile
dalla volontà stessa, importa già che la volontà non abbia
un contenuto ? L’essere l’oggetto del conoscere non sepa¬
rabile se non per astrazione dall’atto correlativo di cono¬
scenza, vuol dire che l’oggetto in questo atto non sia
distinguibile dal soggetto, con cui nella conoscenza fa tut-
t’uno ? Anche nell’ organismo vivente un organo è con¬
giunto inscindibilmente cogli altri, ma non perciò s’ im¬
medesima e confonde nè cogli altri nè con l’unità organica
totale. La morale non è il tutto di cui il diritto sia una
parte; ma l’atto reale, effettivo, concreto, di cui il diritto
è un semplice momento.
INDICE
Avvertenza.. . . Pag. VII
I Fondamenti della filosofia del diritto
Introduzione allo studio della filosofia pratica o della
vita morale . 3
1. — Lo spirito come attività pratica . 3
2. — La realtà morale . 5
3. — Identità di attività pratica e realtà morale . 7
4. — L’attività pratica . 9
3. — Il concetto dialettico della realtà morale come
unità di bene e di male . 9
6. — Critica del concetto astratto del male ... n
7. — L'errore dell'etica intellettualistica . 13
8. — L’etica greca eudemonistica . 13
9. — L'etica cristiana e Kant . 15
10. — L'etica rosminiana . 16
11. — Il formalismo di Kant e il carattere dialettico
della concezione rosminiana del volere morale . . 22
12. — Elementi intellettualistici persistenti nella dot¬
trina rosminiana . 28
13. — Carattere della morale rosminiana . 31
I. — La necessità e l’assunto della filosofia del di¬
ritto . 34
1. — Filosofia del diritto, sociologia, teoria generale
del diritto . 34
2. — Il diritto come idea. 34
3. — Immanenza del metodo nel concetto del diritto 35
4. — Il diritto come fenomeno 0 fatto, e conse¬
guenza di questa posizione . 35
I 4 2
INDICE
5. — Distinzione tra fenomeno giuridico e categoria
giuridica . 37
6. — La categoria come fenomeno e la categoria
come tale . 38
7. — Immanenza della categoria giuridica nei feno¬
meni che sono oggetto della storia del diritto . . 39
8. — Differenza tra la teoria generale del diritto (e
ogni fenomenologia giuridica) e la filosofia del diritto 40
9. — La contestabilità di una categoria giuridica . 40
10. — Ripugnanza intrinseca tra i due concetti di
diritto e di fatto. 41
11. — LI pensiero come alto . 42
12. — Il concetto della libertà . 43
13. — Falli naturali, fatti umani, e la storia eterna
del Vico . 44
14. — Equazione del fallo umano col fare .... 44
15. — Il principio del diritto come fatto, e la categoria. 45
16. — La filosofia inconscia degli empiristi del diritto 45
17. -—- Il compito della filosofia del diritto .... 46
II. — La realtà come pensiero. 47
1. — La realtà realizzata dal pensiero . 47
2. — Necessità di concepire tutta la realtà come
realizzata dal pensiero per evitare lo scetticismo . 48
3. — Assurdità dello scetticismo . 49
4. — La realtà come realtà del pensiero . 49
5. — Le difficoltà dell’oggettivismo . 50
6. — Il motivo psicologico della ribellione comune
contro V idealismo . 52
7. — Il diritto come forma di realtà spirituale . . 53
III. — La realtà morale. 54
1. — Cognizione e volontà . 54
2. — Facoltà dello spirito e processo spirituale unico 54
3. — Analisi del processo in cui si attua V Io . . 55
4. — Esclusione di ogni molteplicità da cotesto pro¬
cesso . 56
5. — Origine storica della dualità di intelletto e
volere, e caratteri dello spirilo come volontà . . 56
6. — L'attività creatrice della volontà e la filosofia
greca . 57
INDICE
7. — La libertà dello spirito in generale, e la filo¬
sofia greca 58
8. — Concezione moralistica del valore della scienza 59
9 - — Riflesso intellettualistico nel concetto della vo¬
lontà . 60
10. — La libertà come creatività assoluta . 60
11. — La distinzione esatta ira cognizione e vobre 61
12. — Teoria della volontà . 62
13. — La dialettica della realtà spirituale . 63
14. — La teoria kantiana dell’autonomia del volere,
suo significato e sua estensione al concetto univer¬
sale dello spirito . 63
15. — Impossibilità di isolare il valore estetico dal
morale . 65
16. — Immanenza del valore morale in quello estetico 65
17. — Relazione del valore teoretico col morale . . 66
18. — Il bene . 67
IV. — Lo svolgimento, l’individuo e la società ... 68
1. — Valore e disvalore (bene e male) come opposti
nell'alto identico dello spirito, e impossibilità di
aver l’uno senza l'altro . 68
2. — Il male come momento interno del bene. . . 69
3. — Lo svolgimento e l’ individuo come universale 70
4. — L'egoismo rispetto al materialismo e rispetto
all’ idealismo: il particolare dell’ individuo come
grado del volere universale .
5. — La volontà come concordia discors. 72
6. — L’individuo e la società come processo di
realtà spirituale . 72
7. — La società inter homines e la società in inte¬
riore homine. 72
8. — L’autorità e la legge . 76
9. — La legge e le leggi . 77
10. — Le leggi come vita della legge . 78
11. — Intimità d’ogni autorità e d'ogni legge ... 78
V. — L’interno e l’esterno della legge . 80
1. — La forza come principio del diritto .... 80
2. — Doppio significato della forza secondo che si
considera a parte subiecti o a parte obiecti ed
M4
INDICE
equivoco proprio delle polemiche contro le dottrine
che derivano il diritto dalla forza . 81
3. — L'esempio del Rousseau . 83
4. — Spiritualità e intimità della forza creatrice
del diritto . 83
5. — L’aspetto esterno e l'aspetto interno della legge 85
6. — Interiorità della forza coattiva dello spirito . 85
VI. — La morale e il diritto. 87
1. — Eticità positiva dell’atto concreto del volere . 87
2. — Posizione del volere come volere e come voluto 87
3. — Il voluto come legge del volere . 87 >
4. — Il volere già voluto e il distacco del volere dal
voluto . 88
5. — Il già voluto come limite della libertà ... 89
6. — Il già voluto, come diritto in senso stretto, sus¬
sistente nel volere attuale, che è morale . 90
7. — Il diritto come astratto universale opposto al¬
l'astratta particolarità del soggetto . 90
8. — Intimità della legge come diritto alla libera
volontà morale . 91
9. — Diritto oggettivo e diritto soggettivo . 92
10. — La coattività del diritto . g3
11. — Coazione e sanzione . 94
12. — Le garenzie del diritto . 95
13. — Critica della distinzione giusnaturalistica del¬
l’attività interna e dell'attività esterna della persona 95
14. — Gli organismi giuridici nel processo storico . 97
15. — Esempio: il diritto di proprietà . 97
16. — Legge giuridica e legge morale nella loro dif¬
ferenza e nella loro identità . 98
17. — Il motivo delle valutazioni morali cui è sotto¬
posto il diritto . 100
18. — La legge ingiusta . 101
VII. — Lo Stato . 103
1. — La scoperta del concetto di Stato . 103
2. — Individualismo e giusnaturalismo . 103
3. — Contrattualismo . 104
4. — Anarchismo e necessità d'un superiore con¬
cetto dell' individuo. . 105
INDICE 145
5. — Carattere materialistico dell’ individualismo . 106
6. — Concezione dialettica 0 storica dell’ individuo 107
7. — Definizione dello Stato come sostanza etica 108
8. — Universalità dell'autocoscienza come sapere . 109
9. — Universalità dell'autocoscienza come volere . no
io. — Processo di realizzazione della universalità
della autocoscienza . no
n. — Il processo dello Stato come processo dell'in¬
dividuo . ni
12. — Eticità dello Stato come sostanza . 112
13. — Fondamento materialistico dell'accusa di sta¬
tolatria . 112
14. — Impossibilità di conferire forma etica allo
Stato che non sia per se stesso etico . 113
15. — Difetto dello Stato nel concetto di Hegel : i
limiti dello Stato . XI 4
16. — Difetto di metodo . n 5
17. — Gli Stati e lo Stato ( nostro ). 116
18. — Identità di Stato e storia universale .... 117
19. — Oggettività della vita sociale interna allo stesso
soggetto . 117
20. — Famiglia e Stato . 1*9
Vili. — La politica. 121
1. — Diritto come astratta posizione del volere, ed
eticità . izi
2. — La critica della opposta opinione . 121
3. — La legge come azione giuridica . 122
4. — L’azione giuridica come volontà voluta . . . 123
5. — Il limite giuridico della volontà come autoli¬
mitazione . 124
6. — La dialettica del diritto . 125
7. — La fenomenologia del diritto . 126
8. — La legge morale e le leggi . 127
9. — La politica e lo Stato . 128
10. — La volontà del popolo e l’ individuo .... 128
11. — La storia del diritto . 13°
12. — Diritto e lago astratto . 13 °
13. — Le obbiezioni alla dottrina della identità di
morale e politica . I 3 1
14. — Il diritto corporativo e lo Stalo corporativo . 131
Appendice: Chiarimenti. 133
ERRATA CORRIGE
Pag.
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9
teoria, del
OPERE COMPLETE
DI
GIOVANNI GENTILE
A CURA DELLA
FONDAZIONE GIOVANNI GENTILE PER GLI STUDI FILOSOFICI
OPERE SISTEMATICHE
I-II.
III.
IV.
V-VI.
VII.
Vili.
IX.
Sommario di pedagogia. Voi. I : Pedagogia ge¬
nerale; voi. II: Didattica.
Teoria generale dello spirito come atto puro.
I fondamenti della filosofia del diritto.
Sistema di logica come teoria del conoscere
(voli. 2).
La riforma dell'educazione.
La filosofia dell'arte.
Genesi e struttura della società.
X.
XI.
XII.
XIII.
XIV-XV.
XVI.
XVII.
XVIII-XIX.
XX-XXI.
XXII.
XXIII.
XXIV.
XXV.
XXVI.
OPERE STORICHE
Storia della filosofia (dalle origini a Platone:
inedita).
Storia della filosofia italiana (fino a Lorenzo
Valla).
I problemi della Scolastica e il pensiero italiano.
Dante.
II pensiero italiano del Rinascimento (voli. 2).
Studi vichiani.
Vittorio Alfieri.
Storia della filosofia italiana dal Genovesi al
Galluppi (voli. 2).
Albori della nuova Italia (voli. 2).
Vincenzo Cuoco.
Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo dect-
monono.
Manzoni e Leopardi.
Rosmini e Gioberti.
I profeti del Risorgimento italiano.
XXVII.
XXVIII.
XXIX.
XXX.
XXXI-XXXIV.
XXXV.
La riforma della dialettica hegeliana.
La filosofia di Marx.
Bertrando Spaventa.
Il tramonto della cultura siciliana.
Le origini della filosofia contemporanea in Italia
(voli. 4).
Il modernismo e i rapporti fra religione e filosofia.
XXXVI.
XXXVII.
XXXVIII.
XXXIX.
XL.
XLI,
XLII.
XLII 1 .
XLIV.
XLV-XLVI.
OPERE VARIE
Introduzione alla filosofia
Discorsi di religione.
Difesa della filosofia.
Educazione e scuola laica.
La nuova scuola media.
La riforma della scuola in Italia
Preliminari allo studio del fanciullo.
Guerra e fede.
Dopo la vittoria.
Cultura e fascismo (voli. 2)
FRAMMENTI
XLVII-XLV 1 I 1 . Frammenti di estetica e di teoria della storia
(voli. 2).
XLIX-L. Frammenti di critica e storia letteraria (voli. 2).
LI-LII. Frammenti di filosofia (voli. 2).
LIII-LV. Frammenti di storia della filosofia (voli. 3).
EPISTOLARIO
1 - 11 . Carteggio Gentile-]aja (voli. 2).
III. Carteggio Gentile-Maturi.
IV e sgg. Carteggi vari.
Finito di stampare
il 15 Marzo 1961
nello Stab. Tip. già G. Civelli
Via Faenza, yi
Firenze
GIOVANNI GENTILE
OPERE
IV
SANSONI - FIRENZE